«Perché il Dap non pubblica via via i nomi di chi muore in carcere? C’è reticenza. E capita che i suicidi non siano registrati, soprattutto quando si tratta di stranieri, perché spesso non ci sono parenti che li “reclamano”. Da quando c’è il ministro Bonafede, poi, c’è una deriva securitaria». La radicale Rita Bernardini non ha dubbi: il dramma dei suicidi in carcere si consuma senza trasparenza da parte delle istituzioni, in un clima generale di disinteresse. Nel frattempo, dopo i disagi e i disordini provocati dal Covid-19 e dalla sua problematica gestione negli istituti penitenziari, il numero di chi si toglie la vita continua a salire: sono già 45 casi accertati dal 1 gennaio ad oggi. «Un dato che supera quello dello stesso periodo dello scorso anno e che ci preoccupa, soprattutto per l’aumento degli ultimi giorni» ammette Daniela de Robert, dal collegio del Garante nazionale dei detenuti, che sottolinea però come non sia evidente e dimostrata la connessione diretta con la pandemia. Piuttosto, sostiene, «è oggetto di nostra attenzione l’aumento dei detenuti a fronte di pochi spazi». Come riporta il sito del Ministero della Giustizia al momento sono 54.277, con 356 persone in più nell’ultimo mese e soli 45 mila posti disponibili. Ancora più sovraffollamento del solito quindi, a peggiorare le condizioni di sicurezza e vivibilità in tempi in cui, tra l’altro, si dovrebbe assicurare sempre la distanza di sicurezza.

«E siamo solo ad ottobre – ricorda Bernardini – andando avanti così si rischia di raggiungere record di suicidi poco invidiabili». Il pericolo, infatti, è quello di avvicinarsi al numero horribilis del 2009, quando a togliersi la vita furono addirittura in 72. L’ultimo caso è quello di ieri: un ragazzo di 22 anni originario del Senegal ha preferito farla finita pur di non continuare a vivere segregato nel carcere di Brescia. Era ai domiciliari per droga e non aveva rispettato gli impegni con i medici che lo avevano in cura, motivo per cui il tribunale di sorveglianza cittadino aveva aggravato la misura. Il giovane era depresso e forse il suo stato era connesso alle denunce di molestie che diceva di aver subito per anni da un imprenditore locale, che in cambio gli offriva soldi e vestiti. Per questo sta indagando la Procura di Brescia.

Sempre ieri Il Giorno ha reso noto che si potrebbe essere suicidato anche un pakistano di 23 anni trovato senza vita a metà settembre nel carcere Bassone di Como. Era stato condannato a due anni e quattro mesi, che stava finendo di scontare, dopo aver rapinato nel 2018 un minore a Malgrate. Con un gesto estremo avrebbe deciso di uccidersi, anche se poco prima del decesso aveva scritto lettere nelle quali si diceva pronto a ricominciare dopo aver lasciato l’istituto. Proprio per questo la Procura di Como ha disposto l’autopsia e l’avvocato difensore del giovane, come conferma l’associazione Ristretti Orizzonti, è in attesa di risultati per decidere il da farsi. Un altro ragazzo, che aveva problemi psichiatrici, è morto tre giorni fa nel carcere di Rebibbia, a Roma. A soli 27 anni, dopo sei mesi dietro le sbarre, si è impiccato. A nulla è servita la vigilanza a cui era stato sottoposto dopo aver già tentato il suicidio.

«L’ennesimo caso di una persona che forse poteva essere curata all’esterno. Il carcere si dimostra sempre di più il luogo utilizzato per risolvere i problemi che all’esterno non trovano soluzione» ha scritto polemicamente su Facebook la Garante dei detenuti della Capitale, Gabriella Stramaccioni. «Soprattutto le persone più fragili in carcere non possono essere seguite perché non ci sono le strutture mediche e psicologiche adeguate» ci spiega Bernardini. E aggiunge: «Il Covid ha peggiorato la situazione, nel senso che le attività culturali, di lavoro e studio per i detenuti non si fanno più in carcere. Già erano poche prima, adesso sono ridotte all’osso. Per il detenuto rimane quindi solo la disperazione di stare in cella o andare a passeggio. In più la sanità penitenziaria fa acqua da tutte le parti e il personale dedicato allo sviluppo del detenuto è scarsissimo: mancano direttori, educatori e assistenti sociali».

Che ne rimane quindi della finalità rieducativa della pena? «Si perde – sostiene l’ex deputata – D’altronde la gestione Bonafede è sempre meno finalizzata al reinserimento nella società». Sull’eventuale maggiore comunicazione da parte del Dap, però, il Garante nazionale dei detenuti non concorda con l’esponente radicale. «Il Dipartimento non deve dare tutti i giorni i dati sulle morti – spiega de Robert- perché non si deve procurare allarme. Noi pure abbiamo fatto attenzione in questi mesi nel non trasmettere continuamente troppe informazioni, anche per non rischiare l’effetto emulazione».