Nel libro dell’Antico Testamento intitolato Siracide, il capitolo 4 contiene alcuni versetti illuminanti per una riflessione su giustizia e magistratura: «Non arrossire di confessare i tuoi peccati, non opporti alla corrente di un fiume (26). Non sottometterti a un uomo stolto, e non essere parziale a favore di un potente (27). Lotta sino alla morte per la verità e il Signore Dio combatterà per te (28)». La magistratura si trova effettivamente dentro la corrente di un fiume, che è il fiume della Storia, la quale impietosamente, com’è suo costume, va portando alla luce il profondo inquinamento politico che attanaglia i gangli costituzionali dell’ordine giudiziario. Inquinamento che si è avvalso delle correnti dell’associazionismo giudiziario, ma che pare andare ben oltre le manifestazioni patologiche di esso. La magistratura può riacquistare credibilità solo a partire dalla confessione franca e coraggiosa dei suoi “peccati”. Non deve arrossire nel cessare di tacere. Ma se continua a tacere, non può non arrossire.
L’espressione istituzionale e associativa della magistratura oggi tende invece a trincerarsi dietro diverse sfumature di ciò che resta in sostanza un silenzio per me insopportabile. Ho già scritto su queste pagine che il libro, opinabile quanto si voglia, a firma di Luca Palamara e Alessandro Sallusti costituisce uno spartiacque rispetto alla comunicazione pubblica dell’immagine dell’organismo giudiziario in Italia, e che su quel libro doveva aprirsi un confronto totalmente aperto con la società civile. Il confronto, invece, non si è aperto neppure dentro la magistratura, e oggi andiamo apprendendo scenari angoscianti sulle modalità di raccolta delle intercettazioni poste a base dell’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. E non si tratta evidentemente di far dettare l’agenda della vita della magistratura da un espulso: questa è una obiezione tanto debole quanto arrogante.
Ora che si è aperta la nuova slavina della loggia Ungheria, assistiamo a nuove forme di sostanziale silenzio (al netto dell’avvio delle doverose attività di indagine penale). A mio avviso appartiene a questo atteggiamento di incapacità di raccontarsi, e dire alla società civile la verità, anche il rifiuto sdegnosamente dogmatico della sola idea (quindi a prescindere dalla sue possibili, e molteplici, concretizzazioni) di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Noi abbiamo bisogno di ricostruire la storia recente della magistratura italiana secondo canoni di rigore che, se non devono soggiacere alle strumentalizzazioni politiche, neppure possono chinare il capo alle formule note dell’associazionismo, inidonee a un discorso di verità.
Ma il libro del Siracide prosegue, facendo divieto di sottomettersi a un uomo stolto e di essere parziale col potente. La magistratura deve sollevare la testa – una testa che, oggi come non mai, dovrebbe coincidere col corpo sano di essa, nella riappropriazione della parola capace di contestare, comunicare e anche pretendere – e smetterla di affidare la propria rappresentanza a formule vetuste che hanno compiuto, nel bene e purtroppo più di recente nel male, la loro missione. Deve chiedere la modifica strutturale dell’ordinamento giudiziario in modo che non si favorisca nessun potente di turno, fuori e dentro l’ordine giudiziario. E deve anche vigilare a che, in questo processo di confessione senza rossori e di progetto di un nuovo ordinamento giudiziario, non si assoggetti alla “stoltezza” di nuovi poteri esterni. La magistratura, insomma, deve affrontare la presenza inquinante del Potere al suo interno e trovare i modi, forse non di debellarlo, ché sarebbe illusorio, ma di arginarlo.
Il tema del sorteggio dei componenti del Csm attiene evidentemente a questo profilo. Ma sono la gerarchizzazione e la riduzione burocratica del ruolo del magistrato che vanno del pari combattute e contro le quali va ridisegnato l’ordinamento giudiziario. L’ultimo versetto del Siracide invita a lottare fino alla morte per la verità. E tantissimi magistrati, nella storia di questo Paese, hanno inverato questo precetto e hanno inteso la loro vita nella magistratura come servizio. Questo attiene alle virtù morali degli individui e della società, e forse oggi queste virtù sono ridotte o smarrite. Ma dare la vita non significa solo morire per la verità. Significa improntare le azioni e i pensieri a un modus vivendi il più possibile trasparente e funzionale a esercitare in modo imparziale la funzione giudiziaria.
Nel dibattito mosso dall’indignazione per le logge e le spartizioni di potere, non vedo all’orizzonte un discorso di verità sullo stato della giustizia. È vero che, come Il Riformista evidenzia, molti sono gli errori giudiziari, molte le ingiuste detenzioni, sempre troppo lunghe le durate dei processi civili e penali, e che a fronte di ciò le valutazioni di professionalità dei magistrati, quasi tutte sempre positive, sembrano un’offesa all’intelligenza. Tuttavia, il nodo drammatico dell’eccesso di domanda di giustizia, e la totale assenza di analisi sulle ragioni di questa domanda, continuerà a consentirci di eludere i problemi strutturali, a illuderci che la produttività sia tutto, a rassicurarci che un ritocco meritocratico aiuti il sistema.

Si tratta di falsificazioni perfettamente compiute. Soltanto una magistratura che sappia confessare i propri peccati senza arrossire, che non si assoggetti allo stolto e non insegua il potente, potrà dettare l’agenda delle vere riforme necessarie. Quelle che il 99% dei magistrati attende, con frustrazione e disillusione crescenti che tanto la politica, quanto le proprie rappresentanze potranno realizzare quelle riforme. Di certo, due passi concreti e immediati potrebbero essere intrapresi: delineare un meccanismo di voto per il Csm in tempi rapidissimi quanto più vicino possibile al meccanismo del sorteggio e sciogliere quanto prima l’attuale Csm.