All’inizio è solo una data sul calendario e una città bellissima in cui si giocherà una partita importante. 31 maggio – Budapest, Puskas Arena. La metti in agenda quando ti qualifichi ai quarti di finale. Hai eliminato il Salisburgo ai play off e la Real Sociedad – autentica sorpresa della Liga – agli ottavi e quindi, per scrupolo, la inserisci, che per quella sera non si prendono impegni. Poi quel giorno arriva, quasi miracolosamente.

Perché hai alzato al cielo una coppa europea solo 365 giorni prima e perché affronti Feyenord e Bayer Leverkusen con lo sfavore del pronostico e l’infermeria piena. E il senso dell’impresa della Roma è tutto nella gioia incontenibile e nella faccia pulita di Edoardo Bove, un predestinato, che all’anagrafe coi suoi 21 anni appena compiuti è più vicino a tuo figlio che a te e che fino a qualche mese fa calcava i campi del campionato primavera, ben altro che decidere una semifinale europea. Nelle successive due settimane che ti separano dalla finale è solo euforia e caccia al biglietto. E al modo per arrivarci a Budapest, tra aerei, charter, treni, auto.

Un esodo festoso di quasi 30mila persone, mentre più del doppio affolleranno uno stadio Olimpico sold-out, solo per vedere la partita su dei maxi schermi. In quale altro posto del mondo potrebbe succedere? “Che cosa sei per me, spiegarlo non è facile” canta Marco Conidi in “Mai sola mai” che ormai accompagna da diversi anni ogni partita dei giallorossi, una sorta di “vice” inno. E, in effetti, è difficile spiegare razionalmente quella fede incrollabile che anima Luca, volo per Vienna e poi alla ricerca di un treno qualunque che arrivi in Ungheria; che spinge Marco ad affrontare la trasferta in auto, prima notte a Gorizia, la seconda a Budapest; o Fabio, volo per Istanbul, scalo di 8 ore e si riparte.

O che muove Manfredi: un pezzo del viaggio in treno, un pezzo in aereo, un pezzo in pullman. Poi quel giorno arriva. E con lui un tempo sospeso. Prima che tutto si compia. Prima che sia vittoria o sconfitta, gloria eterna o sofferenza. Il tempo dello stomaco chiuso e del cuore in gola. Dei chilometri da fare e delle ore che non passano, dominate da un’ansia ingestibile. Il tempo degli sguardi complici in aeroporto, perché la Roma ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo: padri e figli in una discendenza unica da Giacomino Losi ad Agostino Di Bartolomei, dal principe Peppe Giannini a Francesco Totti, l’unico e il solo capitano. Il tempo della scaramanzia, per cui ti metti in viaggio indossando la stessa camicia e la stessa sciarpa che avevi a Tirana, conservata per le occasioni che contano.

Seduto accanto in aereo trovi Federico, che è di un altro partito e di mestiere fa il sottosegretario al Mef, ma che ora e qui è come fosse tuo fratello. Lui ha fatto una scelta ancora più radicale. Stesso abito e stessa cravatta della finale di Conference League. I suoi preferiti. Voleva indossarli il giorno dopo alla Festa della Repubblica, ma insomma la vita è fatta di priorità. E la finale è stata un’odissea, che più romanista non si può. Ben 146 minuti di battaglia, la partita di calcio più lunga della storia. Siamo entrati allo stadio a maggio e siamo usciti che era già giugno. E tornati a casa col sole già alto.

Crudele perché prima ci ha illuso, con la magia di Dybala e il primo tempo in vantaggio. E poi ci ha colpito duro, col pareggio a inizio ripresa da cui è iniziata un’escalation di eroismo e sofferenza. In lotta coi crampi, la fatica, la sfortuna, i torti. Più volte sull’orlo del baratro, tenuti in piedi da un orgoglio epico: il palo del Siviglia, il rigore inventato per loro e poi provvidenzialmente cancellato dal Var, quello clamoroso negato a noi per un plateale mani in area, la traversa di Smalling ad un passo dalla fine.

E poi i rigori. E quando dici rigori e finale ad un romanista, lui già sa. Non c’è neanche bisogno di aspettarli. O di assistere alla vergogna del rigore parato da Rui Patricio e fatto ripetere. E ora accanto alla cicatrice mai rimarginata di Roma – Liverpool ce n’è una più fresca. Poi sono solo lacrime: le tue, quelle di chi è seduto accanto a te come quelle di Paulo Dybala che dopo la finale dei mondiali in cui era stato protagonista soltanto nel finale, aveva fatto di tutto per esserci, a ritmo di infiltrazioni e sacrificio e per sollevare un altro trofeo. E quelle di tutti i ragazzi riuniti in cerchio dal condottiero che li ha guidati. Per dire loro che lui di finali ne ha vinte cinque ma non è mai stato orgoglioso della sua squadra come stavolta, che invece ha perso. Una bugia probabilmente, ma preziosa e bellissima.

E infine, c’è il giorno dopo. E più che piangere o recriminare io sento il dovere di dire grazie. Grazie a chi mi ha fatto romano e romanista. A chi mi ha cresciuto giallorosso. A Fernando, l’amico dei miei genitori che, quando ero bambino, mi rapiva qualche ora dai compiti per portarmi a Trigoria a vedere gli allenamenti. Grazie a una squadra capace di lottare contro ogni avversità e superarla. Contro tutto e tutti, come ieri sera di fronte ad un arbitraggio scandaloso. Ma soprattutto a lui. Grazie a Jose Mourinho. Colui che ha reso l’impensabile pensabile e l’impossibile possibile. Che ci ha fatto sentire così forti e importanti da quando siede su quella panchina.

Che ha saputo far sempre virtù delle difficoltà, che ha valorizzato e fatto emergere un gruppo di giovani – i “bambini” come li chiama lui – che saranno preziosi per il calcio italiano che verrà e che ha convocato a Roma campioni come la Joya e Matic, che sono qui solo perché c’è lui. Grazie per questi due anni insieme. Per averci portato quassù, sul tetto d’Europa a giocarcela. Per aver cambiato tutto, dove sembra sempre non possa mai cambiare niente.

Bisogna immaginare Sisifo felice” scriveva Albert Camus del mito che racconta l’assurdo dell’uomo, costretto all’indicibile fatica di portare un masso fino in cima ad una ripida salita e ogni volta condannato a vederlo rotolare giù, per poi riprendere, ogni volta, la salita. E così dovete immaginarci. Anche sfatti e desolati mentre riprendiamo la via della Capitale. Con quella fatica che la vittoria avrebbe cancellato e che l’ingiustizia della sconfitta, invece, amplifica. Ma felici anche di fronte alla sconfitta, felici di sventolare quei colori – giallo come er sole e rosso come er core mio – tenaci nel ripartire, ancora una volta. E nel riempire già domenica sera l’Olimpico, con un coro ancora più forte: Grazie Roma.

Luciano Nobili

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