Della tradizione socialista in Italia Filippo Turati è stata la figura più rilevante, che si è distinta nella sua ferma ostinazione a guadagnare per il movimento operaio “il senso della politica” ovvero un autonomo punto di vista sulla condizione moderna. L’autonomia politica dei lavoratori contro ogni mito della armonia sociale esigeva per lui una duplice fatica: l’assunzione di una specifica lettura delle cose, che risultasse distinta dalle categorie democratico-giacobine, e il superamento delle anguste inclinazioni operaiste ed anarchiche, incapaci di far salire le proteste spontanee ad una sintesi di tipo politico-culturale. Le categorie di Marx si prestavano per emendare, oltre alle istanze puramente democratiche, anche i vizi di settarismo e i serbatoi di infatuazione per la violenza che, con “l’abito e il gesto dei cospiratori”, ostacolavano la saldatura tra la classe e la rappresentanza.

Il Marx di Turati era decodificato con le lenti eclettiche del positivismo e faceva corpo con i concetti determinati ed evolutivi propri di una gnoseologia empiristica la quale imponeva nella prassi di calibrare con accortezza la prospettiva generale di cambiamento con i tempi, le situazioni, gli attori. Diversamente dalle correnti revisionistiche sviluppatesi sull’onda di Bernstein e dalle sensibilità mutualistiche, il riformismo di Turati, anche quando assumeva il terreno dei singoli punti minimi raggiungibili qui e ora (esemplare fu il suo disaccordo con la proposta massimale e non urgente di Salvemini a favore del suffragio universale), rimaneva ben ancorato alla prospettiva delle “rivoluzioni economiche e morali” con il fine esplicito della “espropriazione del capitalismo”. Queste istanze di un “mutamento radicale economico” però nulla avevano a che fare con i retaggi cospirativi di ceti ristretti che riducevano la lotta alla coltivazione di “un verbo chiuso”. L’azione di massa era il requisito di una idea di rivoluzione che, contrariamente alle pratiche di èlite colte e alle sussistenti intonazioni anarchiche, non poteva scaturire “per impulso e deliberazione di pochi segretamente affratellati ubbidienti ad una parola d’ordine, fedeli ad un cenno”.

Intesa come idea della grande trasformazione richiesta dalle stesse dinamiche della modernità, la rivoluzione quale processo cumulativo irreversibile non venne rigettata da Turati. Per un certo tempo, prima di prendere le misure del fenomeno bolscevico, anche lui avvertì la suggestione del mito di Mosca. In un intenso discorso alla Camera ammonì: “Nessuno di voi può pensare che la rivoluzione scoppiata in Russia su due continenti, che quella scoppiata in Austria, Ungheria, Germania, rimanga lì circuita, come una rosolia che si può isolare con una catena di sanità, e non vada oltre, e non sia già la rivoluzione europea, la rivoluzione universale, o violenta o pacifica, a seconda che si saprà andarle incontro e secondarla, o si pretenderà follemente arrestarla ed infrangerla”. Il riformismo non si configurava come un cedimento circa gli obiettivi di una discontinuità qualitativa. Consisteva piuttosto nella persuasione che la grande trasformazione fosse determinata non da una qualche “ossessione catastrofica” bensì dalla accumulazione illimitata di singole fratture, di piccole conquiste politiche e sociali.

La formula di Turati era che “la rivoluzione viene dalle cose” e ciò imponeva la connessione organica di competizione politica e conflitto di classe per giungere ad “una graduale conquista del potere sociale”. Le piccole conquiste del riformismo accompagnano una tendenza inarrestabile che nel tempo stabilisce un ordine sociale nuovo. Ogni singola innovazione “è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla massa. Verrà giorno che i fiocchi formeranno valanga”. Entro questa impostazione evolutivo-gradualista (il socialismo appariva come “il portato delle cose medesime”) non c’era spazio per il “semplicismo infantile” degli anarco-sindacalisti, censurati duramente per il loro regressivo culto della “violenza redentrice”. Anche la dimensione progettuale, che evocava l’adozione di “un piano possibile, verosimile, ben architettato e ben confezionato”, veniva ridimensionata. Si trattava di un “finalismo metafisico” che alimentava la deleteria tentazione per il movimento di tornare a “bamboleggiare di nuovo”. Il socialismo doveva invece assumere con maturità le categorie del realismo per agire con pragmatismo entro una ottica di “gradualità evolutiva” capace di oltrepassare i ribellismi, i gesti, “le negazioni più nichiliste”.

La strada indicata da Turati prevedeva la saldatura tra classe (“l’elemento operaio e contadinesco è il rinsanguamento prossimo futuro della società anemizzata e tabescente”), organizzazione (la forma partito appariva cruciale per “non ridurre il partito ad accademia dottrinale di disputanti”), istituzioni (“noi vogliamo al potere la democrazia”) e coscienza (una interpretazione critica dello “sviluppo obiettivo e subiettivo” sembrava indispensabile per disegnare la coscienza del “povero operaio minorenne”). Nell’azione politica reale questo innesto comportava una duttilità tattica per isolare nel blocco borghese le forze più conservatrici e definire politiche di convergenza per il consolidamento democratico. Il suggerimento ai socialisti di agire nella arretratezza del caso italiano come un pungolo critico e dialogante con la borghesia più avanzata (“secondo l’arte di disgiungere il nemico e incalzarne separatamente le varie frazioni”) al fine di ottenere la modernizzazione della società e dello Stato ha offerto risultati ondivaghi, con punte di avanzamento significativo e fasi di regressione e in definitiva di sconfitta.

Nella vicenda del socialismo ha influito la divisione tra le varie sensibilità per cui le componenti molto forti del massimalismo, con la loro “vena di ribellione impulsiva e di demagogismo”, avevano un linguaggio molto più affine ai dialetti delle forze dell’irrazionalismo antipolitico (anche della destra) che alle misurate metafore di Turati. L’adesione del leader socialista ai tempi della politica prevedeva tatticismi, fughe in avanti (come il voto al governo di destra di Luzzatti che indignò molto la stessa Anna Kuliscioff, che lo presentò come una istigazione a favore delle mai sopite tendenze degli “antiparlamentaristi e astensionisti, sostenitori dell’azione diretta”), insieme a riluttanze (nelle fasi di caduta del regime liberale mancò un effettivo dialogo con i popolari e le forze di governo ancora leali allo Statuto). In definitiva, la spregiudicatezza nella manovra (il Psi, sebbene costituisse il primo partito di massa con 216 mila iscritti raggiunti nel ’20, vantava un modello organizzativo di tipo decentrato e policentrico, con un ruolo indipendente dei parlamentari e delle stesse associazioni di categoria) e le offerte di collaborazione subalterna ai governi (soprattutto quello di Giolitti “segnò una rivoluzione parlamentare di primaria importanza, iniziando il periodo di consolidamento della libertà e del rispetto alla legge”) non sempre si associavano in Turati alla capacità di costruzione di un ampio consenso sociale.

Il segno della sconfitta dinanzi alla affermazione del fascismo, che avanzava con i metodi della violenza e della illegalità, conferisce un tocco di tragico al socialismo italiano. La visita di Turati al re, la proposta di un patto di pacificazione, la gestione della secessione dell’Aventino rivelarono le irrisolte antinomie culturali di un movimento di massa che non aveva investito nella legalità statutaria e neppure aveva avuto la forza di organizzare lo scontro aperto con il nemico. La fiducia di Turati verso una “borghesia giovane, intraprendente, moderna” con cui condividere una stagione di riforme non produsse i risultati di un effettivo processo di modernizzazione e “le baldanze della grande proprietà” alla fine trionfarono con il sostegno alla milizia armata ingaggiata in una dinamica controrivoluzionaria. Gli “sperimenti di politica liberale” naufragarono e fatale fu l’ambiguità del socialismo nel giudizio in merito alle sorti della costituzione vigente, al ruolo del conflitto e della mediazione in politica.

L’oscillazione dei socialisti, tra tentativi di inserimento legalitario-parlamentare e velleità di un sovversivismo condito secondo il linguaggio della “intransigenza ultra”, tra estraneità e collaborazionismo, tra appello alle armi e “sciopero legalitario”, portò ad una storica sconfitta che travolse anche la figura più autorevole del movimento operaio. Nella previsione di una incompatibilità strutturale tra regime reazionario fascista ed economia industriale avanzata Turati aveva colto un effettivo indirizzo, anche se i tempi della politica non possono accontentarsi delle tendenze di lungo periodo e richiedono semplificazioni, parole d’ordine immediate, persino “miti”, per la ripresa del protagonismo operaio dopo la catastrofe.