Chiude finalmente il Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica (il nome corretto è Articolazione per la salute mentale), del carcere Le Vallette di Torino. Chiude perché obsoleto, fatiscente, del tutto inadeguato per svolgere quelle attività di osservazione e cura a cui era destinato. Talmente inadeguato che la Procura di Torino, che fino a ieri mandava lì le persone, adesso ha aperto un’indagine per maltrattamenti a danno delle persone lì detenute.
Il Sestante dunque chiude adesso, eppure questa situazione era nota da tempo. Antigone, a cui si deve l’ultima denuncia che ha riaperto il caso, pubblicata da Susanna Marietti subito dopo la nostra ultima visita, segnalava questa la situazione da anni.

Denunciavamo le condizioni generali del reparto e quanto accaduto in casi individuali, come quello di M., un giovane che sarebbe stato detenuto per mesi al Sestante, un reparto dove si dovrebbe restare per un massimo di 30 giorni, e che sarebbe stato rinchiuso per giorni in una cella “liscia”, priva di tutto, in cui tra l’altro sarebbe stato lasciato senz’acqua e si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del W.C.. Anche il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà denunciava da tempo le condizioni del Sestante, ed in particolare della cella “liscia”, eppure solo adesso il reparto viene finalmente chiuso per essere ristrutturato e le persone che ci stavano vengono finalmente spostate altrove. Ma come è stato possibile tutto questo? Come è potuta una simile vergogna andare avanti per anni sotto gli occhi di tutti? Andiamo per ordine.

Le articolazioni per la salute mentale, previste dal regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, sono i luoghi in cui si dovrebbe anzitutto accertare l’esistenza o meno di patologie psichiatriche. Un imputato o un detenuto potrebbero simulare la patologia per evitare la pena o accedere ad alternative alla detenzione, e a questo scopo erano stati istituiti questi reparti, che si chiamavano appunto di osservazione psichiatrica. Basta entrarci una volta per rendersi conto però che il problema in quei luoghi non è certo la simulazione. Si tratta infatti di spazi per lo più dedicati alla gestione della fase acuta della patologia psichiatrica, fase in cui il paziente è di più difficile gestione, a rischio di aggressività e autolesionismo.

In questi luoghi le persone vengono contenute, compensate, e successivamente rimandate da dove vengono, perché la fase acuta è passata e non si avviano percorsi di cura, o indirizzate verso percorsi terapeutici che si svolgeranno altrove. In ogni caso dunque luoghi dove si dovrebbe sostare per un breve periodo, al massimo per 30 giorni, ma dove le persone spesso sono detenute assai più a lungo, in un contesto esclusivamente contenitivo, del tutto inadatto alla cura, ma dal quale senza cure non è facile uscire. E non sono pochi i reparti come il Sestante in Italia. Certo più piccoli, spesso in condizioni materiali migliori, ma tutti rischiano di svolgere la stessa funzione. Il luogo per contenere le forme più acute del disagio mentale. Non un luogo di cura, ma di alternativa alla cura. Perché, e questo è un punto fondamentale, in carcere la presenza del disagio psichico non ha paragoni rispetto al fuori.

Secondo i nostri dati più recenti, relativi alle 85 visite che abbiamo fatto da settembre 2020 ad oggi, il 39,6% dei detenuti è in terapia psichiatrica. A fronte di questo dato esorbitante, sempre dalle nostre rilevazioni, risulta che in media, per ogni 100 detenuti, ci sono in tutto solo 8,1 ore ore di presenza settimanale degli psichiatri. Credo che questi numeri parlino da soli. Il disagio, e la domanda di cura, sono enormi, le risorse per la cura del tutto inadeguate e, in quella comunità “compressa” e difficile che è il carcere, questo si traduce subito in problemi di ordine e sicurezza. Problemi che reparti come il Sestante sono chiamati a risolvere. Perché, se il Sestante era l’alternativa alla cura, la cura è l’alternativa al Sestante.