Sei donne anziane, quattro minorenni, tre madri. Yaffa Ader, Hannah Katzir (data per morta dal Jihad islamico nei giorni scorsi in una macabra mossa di terrorismo psicologico), Margalit Moses, Hannah Perry, Adina Moshe, Danielle ed Emilia Aloni, Keren, Ruthie e Ohad Mondar.

E poi ancora Doron Katz Asher e le sue figlie: Raz e Aviv. Sono loro i primi tredici ostaggi israeliani liberati da Hamas in base all’accordo siglato con il governo di Benjamin Netanyahu, e che prevede il rilascio di 50 persone divise su quattro giorni.

Persone rapite il 7 ottobre e che hanno fatto rientro nel loro Paese dopo quasi 50 giorni di sequestro nella Striscia di Gaza. La liberazione è avvenuta secondo i piani. La tregua è scattata all’alba di giovedì. Nel primo pomeriggio, gli ostaggi liberati – non solo i 13 israeliani ma anche 10 cittadini thailandesi e un cittadino filippino – sono stati consegnati alla Croce Rossa nella città di Khan Younis e condotti verso il valico di Rafah con l’Egitto.

Le persone liberate hanno poi fatto tappa al posto di confine di Keret Shalom per fare infine rientro nello Stato ebraico scortati dalle forze armate e dagli uomini dei servizi ed essere trasferiti negli ospedali predisposti per gli accertamenti clinici. Nel frattempo, si sono messe in moto anche le autorità israeliane impegnate nel rilascio dei detenuti palestinesi, liberati come contropartita.

Il rapporto è confermato di tre palestinesi per ogni israeliano liberato. Si è trattato di 24 donne e 15 minorenni, in maggioranza residenti in Cisgiordania. Per loro, il percorso è stato suddiviso in due parti. Prima il trasferimento dalle carceri di Damon e Megiddo, non lontano da Haifa, alla prigione di Ofer, vicino Ramallah, dove si sono radunate decine di persone. Tensioni si sono registrate anche al checkpoint di Beitunia, dove sono avvenuti scontri tra forze israeliane e palestinesi che si erano radunati per ricevere i detenuti appena liberati.

Un procedimento meticoloso ed eseguito affinché fosse evitato il minimo errore. L’accordo, come dimostrato durante i negoziati, si regge infatti su un equilibrio estremamente fragile dove ogni mossa errata può risultare fatale. Lo sa il governo di Israele, che ha atteso la lista del secondo gruppo di ostaggi con il fiato sospeso. Lo sanno anche le forze armate impegnate nella Striscia di Gaza, che ora si trovano in una situazione di stallo in attesa che la tregua termini lunedì. In queste ore, le Tsahal operative a Gaza sono impegnate a controllare ogni possibile movimento sospetto.

Ma uno degli obiettivi più importanti è anche quello di evitare che i profughi a sud della Striscia decidano di riprendere la strada verso nord, spinti anche dalle pressioni di Hamas. Per i comandi israeliani un enorme punto interrogativo, dal momento che il rientro dei civili palestinesi, oltre a rappresentare un potenziale arrivo di nuovi miliziani, significa anche l’arrivo di persone da evacuare con la ripresa dei combattimenti oltre che l’ingresso di possibili scudi umani che renderebbero ancora più complesso il compito delle Idf. Tutte le autorità sono del resto consapevoli che il conflitto riprenderà non appena terminato l’accordo. La speranza, oltre al mantenimento della parola data e l’assenza di brusche interruzioni nel processo di liberazione degli ostaggi che è stato garantito fino a lunedì, è che la tregua possa essere prolungata.

Ma dal governo dello Stato ebraico sono arrivate affermazioni chiare. Netanyahu ha detto che “il ritorno delle persone rapite è uno degli obiettivi della guerra” ma che l’impegno del governo è quello “raggiungere tutti gli obiettivi”. Esplicito è stato anche Benny Gantz il quale, rivolgendosi alle famiglie dei rapiti, ha detto che dopo la tregua sarà ripresa l’operazione militare “per liberare gli ostaggi e ripristinare la deterrenza”.

Mentre tacciono le armi – con la tregua momentaneamente rispettata anche da Hezbollah in Libano – non si ferma il lavoro della diplomazia. Il presidente Usa Joe Biden resta in prima linea per il rispetto dell’accordo sugli ostaggi. Ieri il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha auspicato la nascita di uno Stato palestinese “demilitarizzato con la garanzia di forze Nato, Onu o arabe e americane” che garantisca anche la sicurezza di Israele. Da registrare anche le mosse di due esponenti europei, il premier spagnolo Pedro Sanchez e l’omologo belga Alexander De Croo, con le parole su Gaza e il conflitto che hanno provocato il duro richiamo del governo di Israele.