La guerra di Israele contro Hamas entra in una nuova fase. Lo ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant, che certifica in questo modo anche lo spostamento del fronte verso sud. Un piano che però segue le direttive di sempre: eliminare l’organizzazione islamista (anche se ieri la Casa Bianca ha espresso più di un dubbio sulla possibilità di riuscirvi in modo completo) e liberare gli ostaggi. Partita complessa che vede le forze israeliane muoversi con molta cautela specialmente una volta entrate a Gaza city e preso il controllo della parte ovest. Ieri, l’esercito ha continuato a operare all’interno dell’ospedale al Shifa, ritenuto il quartier generale nascosto di Hamas e nei pressi del quale sono stati rivenuti i resti di una donna presa in ostaggio il 7 ottobre. Un’incursione che secondo l’organizzazione  avrebbe distrutto alcuni reparti del nosocomio.

Tra malati, feriti e medici – impegnati in un lavoro drammatico per assenza di beni di prima necessità, carburante, farmaci e con un numero crescente di pazienti e morti – le Tsahal sono tornate nella struttura e hanno trovato armi, documenti, testimonianze dell’attacco del 7 ottobre, ma soprattutto computer e laptop con all’interno foto e video degli ostaggi catturati nel blitz di Hamas. “Abbiamo trovato molti computer e del materiale che potrebbe gettare luce sulla situazione attuale, compresa quella, speriamo, degli ostaggi” ha detto ai media uno dei portavoce dell’esercito israeliano, il tenente colonnello Jonathan Conricus, che ha anche aggiunto che quello che si trovano di fronte le forze armate dello Stato ebraico potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Le unità israeliane, infatti, operano all’interno di una città che è stata plasmata negli anni come una vera e propria roccaforte diffusa dell’organizzazione palestinese. E questo significa che da un lato ogni edificio può in realtà nascondere la sua vera essenza di avamposto bellico, dall’altro lato, che la rete di tunnel e di arsenali di Hamas può coinvolgere qualsiasi tipo di area abitata, che può essere così contemporaneamente un’infrastruttura civile, un covo per i miliziani, un sito di lancio di razzi o anche un luogo dove sono tenuti prigionieri gli ostaggi.

Nel frattempo, attraverso un’operazione dell’élite della Marina israeliana, lo Shayetet 13, e della Brigata corazzata 188, lo Stato ebraico ha ampliato il proprio raggio d’azione prendendo il controllo di un’altra struttura fondamentale per le attività di Hamas: il porto di Gaza. La conquista dell’area portuale, che ha condotto non solo all’uccisione di una decina di miliziani palestinesi ma anche alla distruzione di diversi accessi ai tunnel della Striscia, ha un ruolo strategico particolarmente importante, dal momento che l’infrastruttura, oltre che a servire come base per le operazioni terroristiche via mare di Hamas, poteva essere anche un punto di scambio con l’esterno oltre che di fuga per i suoi comandanti.

Le Idf hanno poi segnalato, sempre ieri, di avere distrutto in un raid a Gaza la casa di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas. Mentre proseguono incursioni di terra e attacchi aerei, non si ferma la macchina dei negoziati più o meno sotterranei per la liberazione degli ostaggi che, come detto, rappresenta uno dei due pilastri dell’agenda di Benjamin Netanyahu in questo conflitto, oltre che una priorità per il primo alleato di Israele, gli Stati Uniti. Ieri sera sono state confermate le notizie su un accordo mediato dal Qatar per la liberazione di 50 ostaggi in cambio di alcuni giorni di tregua e di decine di giovani e donne palestinesi imprigionate in Israele. E il gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico cerca di delineare le prossime mosse. Molti esperti segnalano le criticità di questo tipo di accordo, che potrebbe dare troppo respiro ad Hamas, il cui leader, Haniyeh, ieri ha detto che Israele “dovrà pagare un prezzo”, oltre a ribadire la sua fiducia nella vittoria. Dal governo israeliano si conferma che le tregue umanitarie o per liberare gli ostaggi non rappresentano cessate il fuoco.

Tuttavia, le pressioni interne ed esterne su Netanyahu non sono poche. Nel Paese, la marcia dei familiari dei rapiti è un segnale. Sul fronte esterno persiste il pressing di Joe Biden e di parte della comunità internazionale. Ieri il capo della Casa Bianca ha manifestato un cauto ottimismo sui negoziati, ringraziando il Qatar per il lavoro. E segnando quindi l’interesse per negoziati che vedono anche la possibilità di pause belliche. La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza Onu ha chiesto “estese pause umanitarie”: altro indizio di come si muova la diplomazia al pari del richiamo dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell. Per Netanyahu, inoltre, è importante evitare ulteriori tensioni con gli alleati ma anche con l’Autorità nazionale palestinese e i suoi principali sponsor, e questo soprattutto per il rischio che esploda la “bomba a orologeria” della Cisgiordania. Ieri le Idf hanno arrestato più di 30 persone di cui 20 accusate di essere membri di Hamas.

E l’attacco compiuto in un posto di controllo tra la regione e Gerusalemme, rivendicato proprio da Hamas, è stato un segnale grave. Tre attentatori sono stati uccisi in una sparatoria con le forze di sicurezza, un soldato israeliano è morto e cinque sono le persone rimaste ferite. Per la polizia, la quantità di armi rinvenuta evidenziava la volontà dei terroristi di “compiere un massacro”. La situazione in Cisgiordania preoccupa non soltanto Israele, ma anche Onu, Stati Uniti e altre potenze, che premono affinché lo Stato ebraico fermi l’estremismo tra i coloni e l’Anp per controllare popolazione e frange radicali. La tensione è costante e il timore che Hamas possa attivare il secondo fronte è concreto. Una paura che si unisce a quell’obiettivo rivelato dai suoi dirigenti su uno stato di guerra permanente e su Israele circondato da minacce. Come dal Libano, de dove continuano a partire razzi. Le Idf hanno risposto: il fronte resta bollente.