Sono passati 40 giorni dall’attacco con cui Hamas ha colpito al cuore Israele. E ora le forze armate israeliane sono dentro la Striscia di Gaza per portare a termine una duplice missione: sradicare Hamas e liberare gli ostaggi. Il primo obiettivo, per le Israel defense forces e l’intelligence si può ottenere solo attraverso l’eliminazione della leadership e delle forze di Hamas e con la distruzione delle infrastrutture belliche dell’organizzazione. Tunnel, arsenali, roccaforti, uffici. Tutto quello che rappresenta non solo l’autorità della sigla jihadista ma anche potenziali minacce e luoghi in cui si nascondono dirigenti e miliziani. Per raggiungere questo scopo, le Idf continuano a colpire la Striscia (ieri è arrivato il primo ordine di evacuazione anche per alcuni villaggi del sud) e ad avanzare nel cuore di Gaza city.

Le unità dell’esercito israeliano hanno preso il controllo dell’ospedale al Shifa, nei cui tunnel si ritiene si nascondano i massimi esponenti di Hamas nella città. Nel raid, le Tsahal hanno affermato di avere trovato armi utilizzate dai miliziani: elemento che conferma, come sottolineato anche dai funzionari Usa, l’uso della struttura sanitaria per scopi bellici, e quindi dei pazienti come scudi umani. Sempre ieri, le truppe dello Stato ebraico hanno distrutto ciò che rimaneva di quello che era il “parlamento” di Gaza. E il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito la linea del governo nei confronti dell’operazione militare nella Striscia: “Non c’è luogo a Gaza che non raggiungeremo. Non c’è nascondiglio o rifugio per gli assassini di Hamas. Andremo lì, prenderemo Hamas e riporteremo a casa gli ostaggi”.
Il secondo obiettivo, altrettanto prioritario come l’eliminazione dell’organizzazione islamista, è dunque quello di individuare e liberare le persone rapite durante l’assalto del 7 ottobre. Un obiettivo estremamente complesso da raggiungere, nonostante l’impegno da parte di Israele e del maggiore alleato, gli Stati Uniti.

E questo soprattutto per due ragioni. Da un lato perché non si sa dove siano stati nascosti gli ostaggi in mano ad Hamas o al Jihad islamico palestinese. La rete di tunnel è immensa e spesso completamente sconosciuta, e questo richiede tempo e un’avanzata che sia parallela all’impiego di tecnologie sempre più sofisticate posto che sono disseminati di trappole. Dall’altro lato, il timore di Netanyahu, del governo ma anche della comunità internazionale è quello per cui Hamas, una volta completamente circondata, possa scegliere di sacrificare gli ostaggi o di usarli come scudi umani incolpando poi della loro morte i raid dello Stato ebraico. Mossa già realizzata con la morte di Noa Marciano e il video dei terroristi con cui accusavano i bombardamenti di Israele. Per evitare questo scenario, le Tsahal tentano in ogni modo di raggiungere gli accessi dei tunnel e di assediare più edifici possibile per cercare di capire se possano essere covi o nascondigli per gli ostaggi.

Nel frattempo, è la diplomazia a essere lo strumento che in questa fase può decidere la sorte delle persone sequestrate. L’accordo gestito dal Qatar – di cui per primo ha parlato Reuters – prevedrebbe la liberazione di 50 persone in cambio di alcuni giorni di tregua e del rilascio di decine di donne e giovani palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. E questo è un segnale certamente da non sottovalutare nella dinamica di un conflitto che si snoda anche attraverso negoziati paralleli tra le parti belligeranti e i rispettivi alleati o sponsor. Ieri, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, incontrando l’inviato di Joe Biden per il Medio Oriente, Brett McGurk, ha confermato che non vi sarebbe stata alcuna cessazione delle ostilità senza la completa vittoria su Hamas e la liberazione di tutti gli ostaggi nella Striscia di Gaza. Tuttavia, per Netanyahu e per l’amministrazione Biden è importante qualsiasi tipo di negoziato che aiuti a riportare a casa le persone rapite, e questo in qualche modo stempera la linea dura espressa da molti esponenti del gabinetto di sicurezza. Il blitz di ieri in Egitto del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha del resto fornito un’immagine precisa di quale sia l’interesse dell’esecutivo in questo preciso momento.

Sul fronte regionale, invece, la situazione appare al momento incardinata in quel sottile e complesso equilibrio di tensioni latenti e giochi diplomatici e strategici. Ieri circa venti razzi sono partiti dal sud del Libano per colpire Israele: attacchi a cui le Idf hanno risposto con gli ormai consueti raid per distruggere i siti di lancio di Hezbollah o delle frange di Hamas in territorio libanese. Mentre dallo Yemen, un nuovo drone è partito in direzione dello Stato ebraico ed è stato intercettato da una nave della flotta statunitense in navigazione nel Mar Rosso, come già accaduto in altre circostanze. Il filo rosso che lega questi assalti è sempre quello della regia iraniana. Le milizie sciite sono legate a Teheran, che da sempre vede questo mosaico di forze in Medio Oriente come un elemento centrale della propria strategia regionale.

Per gli Ayatollah si tratta di un gioco complicato e non privo di rischi. Ed è anche per questo che ieri alcune fonti ben informate citate dalla Reuters hanno riferito che nel corso dell’incontro con il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, la guida suprema iraniana Ali Khamenei avrebbe chiarito che la Repubblica islamica non sarebbe entrata in guerra per l’organizzazione che controlla Gaza, che non ha avvertito l’Iran dell’attacco dei 7 ottobre. Il messaggio può avere vari significati: dall’avvertimento ad Hamas (e alle stesse milizie sciite) fino alla rassicurazione nei confronti di Stati Uniti e Israele, visto che anche Benny Gantz ha messo in chiaro che lo Stato ebraico avrebbe trovato i suoi nemici “a Gaza e nel mondo”. Continuano infine a preoccupare le tensioni in Cisgiordania, dove ieri McGurk – che si è visto anche con Netanyahu – ha incontrato il leader dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen.