"La bussola è l’agenda Draghi"
Fumarola: “La mia Cisl? Partecipazione attiva dei lavoratori, nel solco di Sbarra. Dare al Sud il ruolo di driver industriale”
La nuova Segretaria generale del secondo sindacato italiano, pronta a dare inizio alla sua direzione, rilancia la proposta di legge

Partecipazione al lavoro. È la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla Cisl, per disciplinare la partecipazione attiva dei lavoratori alla vita delle imprese. Ma è anche il primo messaggio Daniela Fumarola vuole trasmettere in qualità di nuova Segretaria generale della Cisl.
Segretaria, quale Cisl sarà quella a guida Fumarola?
«Una Cisl che fa tesoro del solco tracciato in questi anni da Gigi Sbarra, della sua guida riformista, autonoma dalla politica e responsabile di un coraggio riformatore sostenuto da tutta l’organizzazione, a ogni livello. Un’impostazione che ha dato uno straordinario protagonismo politico e sociale e associativo alla Confederazione, salvaguardando il ruolo di un fare sindacato lontano da derive populiste e antagoniste, che condannano all’irrilevanza il mondo del lavoro. La Cisl è una comunità fortemente radicata nei territori e nelle categorie, efficiente nella nostra rete dei servizi, in grado di guidare e non subire i cambiamenti del mondo del lavoro, con il coraggio della partecipazione che non a caso è il titolo del nostro percorso congressuale».
Quali saranno le priorità del 2025?
«Noi cercheremo di rappresentare i bisogni concreti e le istanze di lavoratori, pensionati, giovani e donne che oggi ci chiedono nuove tutele e nuovi diritti, ma soprattutto il rispetto della dignità della persona e del loro lavoro. La nostra prima battaglia sarà quella di alzare salari e pensioni, diminuire le tasse ai più deboli e al ceto medio, riaprire il tavolo sulla riforma previdenziale, sbloccare investimenti pubblici e privati con la priorità di consolidare le politiche attive ed elevare qualità e sicurezza del lavoro. Dobbiamo unire l’Italia, promuovere coesione territoriale dando al Mezzogiorno il ruolo di driver industriale non solo per il resto dal Paese ma anche per l’Europa. Per fare tutto questo occorre un patto tra soggetti responsabili. Lo dico in giorni in cui si celebra l’accordo di San Valentino: rimettiamo al centro il riformismo sociale e diamo al Paese una roadmap su obiettivi strategici comuni».
La Triplice vive una condizione di quasi rottura. Cosa bisogna fare per evitarla?
«Diciamo che ci sono sensibilità distinte nell’interpretare l’azione e il ruolo del sindacato, e diversi modi di valutare i risultati ottenuti con la mobilitazione e il negoziato. Per noi la via maestra resta il dialogo, la contrattazione nelle aziende e ai tavoli pubblici, facendo i conti con la realtà senza pregiudiziali. Insieme a Cgil e Uil siamo impegnati in tantissime vertenze di categorie e nei territori con piattaforme e mobilitazioni comuni per raggiungere gli stessi obiettivi. Questo è un bene. Ma il sindacato deve anche confrontarsi con tutti gli interlocutori, qualunque sia il colore politico dei Governi, deve puntare a fare accordi, a cominciare dal firmare i contratti pubblici scaduti da quattro anni come quello della sanità o degli enti locali. Bisogna sfidare con proposte serie e costruttive i decisori pubblici e gli interlocutori sociali. Non è con la scelta di un improbabile Aventino sindacale, né la protesta compulsiva che si portano risultati ai lavoratori e si costruisce l’unità sindacale».
Dicevamo “Partecipazione al lavoro”: i mali della nostra economia sono la sotto-dimensionalità delle nostre imprese e la scarsa produttività del lavoro. La partecipazione dei lavoratori nei Cda aziendali può invertire la rotta?
«Può farlo attraverso la condivisione di strategie che puntino anche all’aggregazione, quindi all’ingrandimento delle realtà produttive, controllando processi di ristrutturazione che troppo spesso pongono le condizioni per l’arrivo di capitali esteri che mettono a repentaglio l’occupazione sui nostri territori. Che il nostro sistema produttivo sia caratterizzato da eccessiva frammentazione è un dato assodato. Sono prevalentemente le “piccole” che faticano a generare innovazione, a contrattare sul secondo livello e dunque alzare produttività e salari. Non si tratta di “calare dall’alto” soluzioni forzate, nessuna ricetta teorica per imporre la crescita delle imprese. Questa invece va accompagnata, quando possibile: bisogna sostenere e incentivare la contrattazione territoriale e favorire le realtà che puntano sulla partecipazione organizzativa, quella mediante la quale i lavoratori hanno un ruolo attivo nel miglioramento di prodotti e processi, la più sostenibile e immediatamente applicabile. Sono tutti obiettivi che ci proponiamo con la nostra proposta di legge. La partecipazione dei lavoratori è la via migliore per organizzare il lavoro in maniera dinamica e flessibile, ritagliando le soluzioni sulle specificità di ogni realtà, elevando retribuzioni ed efficienza».
La Germania segue storicamente questo modello, oggi però è in crisi. Come si potrà evitare di cadere nello stesso errore?
«La Germania ha una legge che impone la Mitbestimmung, la cogestione delle aziende. Un’impostazione che ha una storia nota che risale al dopoguerra. La situazione italiana è molto diversa. Il nostro progetto non forza alcuna soluzione di altri Paesi nel nostro ordinamento, bensì propone una via tutta italiana e contrattuale alla partecipazione gestionale, senza imporre nulla dove – per esempio – si volesse applicare solo l’organizzativa, la finanziaria o la consultiva. La gestione partecipativa, in queste quattro articolazioni, quando è applicata con le relazioni industriali, è solo un’opportunità e può portare grandi benefici in termini di salari, produttività, qualità del lavoro, radicamento degli investimenti, salute e sicurezza, formazione innovazione. Sono tante le buone pratiche già adottate nelle migliori aziende, casi che vogliamo estendere e incentivare adeguatamente anche nelle piccole e piccolissime realtà produttive».
Il mercato del lavoro è sempre più over 50 e l’età pensionabile ha sforato i 64 anni anche per le donne. Quali sono le soluzioni perché un lavoratore di “una certa età” si senta ancora utile e aggiornato per la sua azienda?
«Per affrontare le nuove sfide ed i cambiamenti del mondo del lavoro bisogna puntare con investimenti opportuni a una riqualificazione di tutti i lavoratori attraverso una formazione permanente, in tutti i settori produttivi, e con piani di riconversione adeguati per non disperdere le professionalità. La contrattazione è la strada per affrontare questo tema, e con cui dobbiamo anche arrivare a orari e settimane più leggeri. In generale dobbiamo puntare a un patto intergenerazionale che da un lato non metta in competizione giovani e anziani nei luoghi di lavoro, dall’altro renda più flessibile e inclusivo il sistema previdenziale. La riforma delle pensioni deve accompagnarsi a un piano di turnover basato anche su politiche attive adeguate, che assicurino qualificazione e orientamento mirati nel mercato del lavoro di ogni territorio».
Intelligenza artificiale, automazione, giovani visionari e stranieri intraprendenti. C’è da aver paura o sono delle opportunità da cogliere? E come?
«L’evoluzione tecnologica e digitale potrà offrire opportunità di lavoro, portando progressi significativi su salari, produttività, sicurezza. Ma tutto questo va affrontato garantendo l’effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva. Per questo non bisogna demonizzare ma governare, vigilare, stare dentro ai processi di decisione, costruendo e negoziando insieme alle aziende e ai governi algoritmi etici, capaci di coniugare aumento di produttività, sicurezza, incremento del benessere lavorativo. La parola chiave è per noi partecipazione. E lo strumento da valorizzare è la contrattazione nazionale e decentrata».
L’Ue esce da cinque anni di Green Deal che adesso viene messo in discussione. Non è stato un errore concentrarsi essenzialmente sulla parte “ambiente” del tema sostenibilità? La sostenibilità è anche sociale. Si è fatto molto o poco in tal senso?
«Sulla scelta del 2035 grava molta ideologia. Una impostazione rigida e burocratica che mortifica la sostenibilità sociale, componente essenziale della giusta transizione. La decarbonizzazione va realizzata con convinzione, ma anche realismo. Vale a dire nella gradualità richiesta dalla riconversione dei comparti produttivi, a partire dall’automotive. È un problema di tutta l’Europa. Servono interventi capaci di dare garanzie occupazionali, riqualificazione, nuove competenze. Politiche che non mettano le nostre economie in ginocchio ma rilancino l’industria continentale ponendo in sinergia i segmenti di ogni Paese. Bisogna cercare un nuovo equilibrio, che ovviamente non significa meramente tornare al passato».
L’Europa è unita (si fa per dire) su moneta, scambi interni e concorrenza. Mancano però altri elementi perché diventi un vero Stato federale. Ammesso che sia il suo obiettivo. Il mercato comune del lavoro è contemplabile tra questi? Se sì in che termini?
«La vittoria di Trump in Usa deve suonare la sveglia all’Unione chiamandola ad accelerare il processo di integrazione e di unificazione, con modifiche al patto di stabilità, dialogo sociale, mutualizzazione del debito, costruzione di una politica economica, sociale, fiscale e anche di una difesa comune. Non c’è altra via se vogliamo essere in grado di incidere nelle gigantesche dinamiche della nuova globalizzazione e della nuova geopolitica. La bussola è quella indicata dal Rapporto Draghi e conduce, anche in Europa, a un nuovo contratto sociale tra istituzioni, sindacati e imprese».
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