I più sbigottiti di tutti, il 21 luglio 2001 a Genova, furono i manifestanti già di una certa età, con esperienza diretta degli scontri anche violentissimi con la polizia degli anni ‘70. Un simile comportamento da parte delle forze dell’ordine non lo avevano mai visto: poliziotti e carabinieri provocavano a freddo, cercavano lo scontro, attaccavano all’improvviso e senza ragione una manifestazione neppure troppo bellicosa. A ogni traversa partivano una carica violenta o un lancio a pioggia di micidiali candelotti lacrimogeni urticanti, dagli effetti più brevi ma molto più sconvolgenti di quelli usati nei decenni precedenti. Era come assistere al capovolgimento della logica abituale, in base alla quale le forze dell’ordine cercano per principio, e di solito anche per precisa disposizione, di evitare lo scontro o almeno di impedire che si trasformi in battaglia.

L’assioma, stracciato dalla polizia quel giorno, è di solito tanto più imperativo in situazioni potenzialmente esplosive, e in particolare all’indomani di una tragedia come l’uccisione di Carlo Giuliani nel corso dei durissimi scontri del giorno precedente. Quel 20 luglio, era la data centrale nella tre giorni di manifestazioni organizzate dal Genoa Social Forum in occasione della riunione del G8 nella città ligure. Giovedì 19 c’era stata la prima manifestazione, quella dei migranti. Colorata, festosa, pacifica: tutto era filato liscio ma non c’erano mai state preoccupazioni in proposito.
La data cerchiata in rosso era quella di venerdì 20. Le Tute bianche si erano erano concentrate allo stadio Carlini, tra i pochi spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Da lì sarebbe partito il corteo che prometteva di sfondare la “zona rossa”, chiusa, blindata e presidiata in forze. La “zona rossa” comprendeva praticamente il cuore del centro storico di Genova. Era stata interamente ingabbiata con sbarre e inferriate pesantissime e tornelli stretti stretti. Imprendibile.

Era una vera dichiarazione di guerra? Negli anni successivi, con la dovuta discrezione, alcuni alti funzionari della polizia hanno parlato di un accordo con le Tute bianche per mettere in scena una sorta di scontro mimato. I manifestanti avrebbero dovuto violare simbolicamente la zona rossa per pochi metri, la polizia avrebbe risposto caricando e respingendo “gli invasori” ma senza calcare troppo la mano. Sia i leader delle Tute bianche che i vertici delle forze dell’ordine hanno sempre smentito quell’intesa. Si trattava però di una pratica all’epoca diffusa. Gli scontri avevano spesso valenza più simbolica e spettacolare che reale e rispondevano all’esigenza avvertita sia dagli organizzatori che dalla polizia di lasciare il meno spazio possibile alle frange più bellicose. Comunque, che l’accordo ci fosse come è in definitiva probabile o meno, a Genova non funzionò e non poteva funzionare. Troppa la tensione accumulatasi e montata in modo dissennato per settimane dai media. Troppo forte la decisione, da parte di tutti i governi, di stroncare a ogni costo quel movimento internazionale. Nelle settimane e nei mesi precedenti un po’ in tutte le parti del mondo, anche forze di polizia tra le più “gentili”, come quella svedese, avevano adoperato una brutalità inaudita.

Gli scontri, venerdì 20 luglio, iniziarono ancora prima che il corteo principale partisse dal Carlini, con le Tute bianche in assetto da combattimento nelle prime file. Gruppi incontrollati di manifestanti avevano lanciato sassi contro la polizia, bruciato alcune macchine, distrutto vetrine e bancomat intorno alla stazione di Brignole, poi intorno al carcere di Marassi. Erano i famosi “Black bloc”, sui quali i media avrebbero poi favoleggiato per anni anche se, come area organizzata, il Blocco nero non è probabilmente mai esistito. Il corteo principale tentò di forzare i cancelli della zona rossa in piazza Dante. Ci riuscì, aprì uno spiraglio attraverso il quale passarono quattro manifestanti: la violazione simbolica della “zona rossa”. Ma le cariche continuarono anche quando il corteo si era ormai allontanato dai cancelli della zona rossa. I video girati quel giorno mostrano cariche della polizia lanciate a freddo, senza che ce ne fosse reale bisogno, e gestite, per imperizia o per calcolo, nel modo peggiore, senza lasciare ai manifestanti via di fuga e costringendoli quindi comunque allo scontro frontale.

In piazza Alimonda i dimostranti contrattaccarono, costrinsero la polizia a ripiegare, trasformarono quelle che sino a quel momento erano state cariche e scaramucce in una vera battaglia di strada. Le forze dell’ordine persero completamente il controllo. I contatti con la sala di comando centrale saltarono, due Land Rover dei carabinieri finirono isolate. I carabinieri schierati a pochi metri, non intervennero. L’autista di uno dei due automezzi perse la testa, spense involontariamente il motore, il Defender fu circondato e assaltato. Un carabiniere di 20 anni, Mario Placanica, in preda al panico sparò uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni, il ragazzo che lo minacciava con un estintore. Negli anni si sono moltiplicate ipotesi più o meno fantasiose secondo cui a sparare non fu il terrorizzato Placanica ma sembra improbabile che questa versione vada oltre la perenne passione italiana per il complotto e il mistero. La notizia della morte di Carlo Giuliani raggelò tutti e caricò di ulteriore minaccia le manifestazioni previste per il giorno seguente, sabato 21, alle quali presero parte centinaia di migliaia di persone. Fu in quel sabato che la parabola di Genova diventò un evento unico nella storia repubblicana. La tragedia del giorno precedente poteva ancora essere vista solo come conseguenza di una manifestazione particolarmente tesa e di una gestione dilettantesca della piazza da parte delle forze dell’ordine. Ma il 21 polizia e carabinieri fecero il possibile per impedire che la tensione calasse e per massimizzare il rischio di una nuova battaglia. Si comportarono cioè all’opposto esatto della prassi consolidata.

Dopo tragedie come quella del 20 luglio, le forze dell’ordine cercano di solito di mantenere un profilo per quanto possibile basso, mirano a contenere la rabbia dei manifestanti. Il 21 luglio, al contrario, polizia e carabinieri fecero di tutto per far esplodere quella rabbia. A differenza del giorno precedente non ci fu nessuna battaglia di strada. Solo una serie interminabile di cariche a freddo, rastrellamenti nei bar e per le strade anche a manifestazione conclusa, lancio continuo di lacrimogeni urticanti, con centinaia di feriti e di arresti. Ci furono macchine messe di traverso e a volte bruciate ma solo per frenare e rallentare gli attacchi immotivati della polizia. Nel pomeriggio, secondo la versione ufficiale, furono trovate nascoste dietro un cespuglio due bottiglie molotov, la cui consegna non fu verbalizzata. Quelle due Molotov, portate dalla polizia stessa nel cortile della scuola Diaz, furono poi usate per giustificare l’irruzione, i pestaggi senza precedenti, la “macelleria messicana” della notte.

La Diaz era uno degli spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Tra il 21 e il 22 luglio nei locali e in quelli dell’adiacente scuola Pascoli si trovavano 93 persone che non avevano potuto o voluto lasciare Genova. Nella notte circa 500 tra poliziotti e carabinieri irruppero nei locali letteralmente massacrando gli ospiti inerti e addormentati. Arrestati senza motivo e senza diritto, dal momento che le Molotov senza le quali gli arresti sarebbero stati illegali le aveva piazzate lì proprio la polizia, furono trasportati nella caserma di Bolzaneto. Le torture nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto arrivarono molto al di là dell’immaginabile in un Paese democratico. Non furono solo botte, ossa fratturate, denti rotti ma anche vessazioni di ogni tipo: persone denudate, degradate, costrette ai comportamenti più umilianti e intanto picchiate sbattute contro il muro pestate senza requie, tra cori e slogan fascisti, inni razzisti, esaltazioni dei lager nazisti.

Le “spiegazioni” delle forze dell’ordine – per l’assalto alla Diaz – furono la classica toppa quasi peggiore del buco. Dissero che si trattava di una perquisizione alla ricerca dei fantomatici “black bloc”, senza dettagliare perché si fossero presentati bardati di tutto punto con scudi e manganelli. Giustificarono le botte, parlando di sassi e bottiglie tirati contro le volanti nel cuore della notte, senza fornire il minimo riscontro e furono sbugiardate. Brandirono le Molotov da loro stessi depositate nella scuola come prova della pericolosità dei ragazzi massacrati nel sonno. Fu senza dubbio un’azione decisa ai massimi livelli. Nella notte, il direttore di un quotidiano avvertito della mattanza ancora in corso, telefonò al portavoce del capo della polizia De Gennaro, per avvertirlo di cosa stava succedendo. Si sentì rispondere che in effetti anche lui si trovava alla Diaz in quel momento. Dagli attacchi indiscriminati del pomeriggio sino alla folle macelleria della notte, il 21 luglio di Genova non fu una situazione “sfuggita di mano”. Fu una scelta precisa, arrivata dall’alto, che però, a distanza di vent’anni resta ancora inspiegata.

Anche perché la nessuno ha mai voluto individuare la catena di comando e presentare il conto di quegli ordini.
Per cercare una spiegazione di quella “sospensione della democrazia”, bisogna inserire Genova nel suo appropriato contesto. Tutti, ancora oggi, ricordano quel che successe il 20 e il 21 luglio. Quasi nessuno, invece, rammenta i fatti di Napoli del 17 marzo dello stesso anno, in occasione del vertice del Global Forum. Da un anno e mezzo, a partire dalle manifestazioni e dagli scontri del novembre 1999 a Seattle, dove era riunito il vertice del WTO, ogni riunione degli organismi sovranazionali era accompagnata da controvertici, manifestazioni di massa, proteste e spesso scontri anche molto duri tra la polizia e il “popolo di Seattle”, ribattezzato dai media “movimento no global” anche se in realtà protestava non contro la globalizzazione ma contro la sua gestione neoliberista. A Napoli, con al potere un governo di centrosinistra, Giuliano Amato presidente del consiglio ed Enzo Bianco ministro degli Interni, la repressione fu durissima. Anticipò nei particolari, sia pur in forma meno estrema, quel che sarebbe successo quattro mesi dopo a Genova: i pestaggi indiscriminati, le retate e le botte a manifestazione già conclusa, la brutalità nelle caserme. Genova non arrivò per caso e non fu conseguenza della vittoria della destra nelle elezioni politiche del maggio 2001. I piani per la gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 erano stati messi a punto dal governo precedente e collaudati a Napoli. È molto probabile che la presenza di un governo di destra abbia aggravato la situazione ma sia la scelta di reprimere con inaudita violenza sia i numerosi errori tecnici erano parto dell’esecutivo Amato.

La scelta di Genova come città ospite del vertice era di per sé insensata. Napoli era stata scartata perché considerata logisticamente troppo pericolosa. Il capoluogo ligure presentava gli stessi inconvenienti. Roma, città più facilmente governabile in termini di ordine pubblico, era stata considerata “troppo calda”. La temperatura era in realtà identica. Il tentativo di impedire l’afflusso dei manifestanti, sospendendo dal 14 al 21 luglio le regole di Schengen, fu un fallimento totale. La divisione della città in zone, con la “zona rossa” e quella “gialla” proibite ai manifestanti, salvo poi ripensarci all’ultimo momento e aprire quella “gialla”, si rivelò controproducente, anzi disastrosa. Ma non si trattò solo di errori e imperizie dei governi italiani succedutisi nel 2001. C’era senza dubbio una disposizione internazionale, a stroncare con ogni mezzo un movimento che stava montando in tutto il mondo occidentale con una rapidità e una potenza che ricordava la fine degli anni ‘60 del secolo precedente. Tra il 14 e il 16 giugno del 2001, a Gothenborg, la solitamente pacifica polizia svedese attaccò le manifestazioni contro la riunione del Consiglio europeo della Ue con una violenza unica nella storia del Paese: attacchi indiscriminati, cariche a cavallo, uso delle armi da fuoco. Un ragazzo di 19 anni fu gravemente ferito dai colpi sparati dalla polizia. Per prudenza la Banca Mondiale annullò il vertice già fissato a Barcellona dal 25 al 27 giugno. Da Seattle a Genova fu un crescendo assurdo di violenze, di solito con l’alibi dei “Black bloc”.

In Italia l’informazione ci mise parecchio di suo. Per tutto giugno, con raro senso d’irresponsabilità, i media italiani soffiarono sul fuoco, contribuendo in modo d terminate a creare il clima parossistico che avrebbe portato alla tragedia. Scrissero che i manifestati si preparavano a lanciare palloni pieni di sangue infetto dal virus dell’Aids sulla polizia, che Bin Laden aveva inviato i suoi uomini per portare lo scontro alle estreme conseguenze, che manipoli di neofascisti si erano infiltrati per provocare inimmaginabili violenze. Le forze dell’ordine ma anche i manifestanti arrivarono all’appuntamento con Genova aspettandosi due giorni di guerra e in un contesto così teso sperare di poter limitare lo scontro a poco più di uno spettacolo mediatico e simbolico non poteva che rivelarsi illusorio. Gli errori dei governi italiani e l’irresponsabilità dei media possono spiegare la tragedia del 20 luglio. Non lo stupro della democrazia del giorno seguente. Ma quella spiegazione non è mai stata cercata. In settembre fu istituita una “indagine conoscitiva” del Parlamento ma, senza veri poteri di inchiesta, non servì a niente.

Dopo il 2006 la maggioranza di centrosinistra provò a istituire una vera commissione d’inchiesta ma la proposta fu respinta dalla destra a cui si unirono i parlamentari di Antonio Di Pietro. Sotto processo sono finiti molti degli esecutori ma pochi sono stati condannati e nessuno ha mai scontato un solo giorno di prigione. Al processo per le torture di Bolzaneto i condannati furono 7: tutti gli altri imputati erano in prescrizione. I vertici della polizia, a cominciare da De Gennaro, hanno proseguito una brillante carriera. In galera ci sono finiti solo i manifestanti arrestati durante gli scontri. I quali hanno scontato molti anni. È un altro esempio di come funziona da noi la giustizia: la polizia e i carabinieri violando la Costituzione e le leggi aggrediscono, provocano, bastonano e persino uccidono. la magistratura interviene e spedisce in galera le vittime.