Entrare al Viminale due giorni dopo la mattanza di Genova fu una lezione indimenticabile. Era lunedì 23 luglio, passai i controlli e con qualche centinaia di passi raggiunsi la palazzina della DCPP – Dipartimento Centrale di Polizia di Prevenzione – l’ex-Digos, la polizia “politica”, il sancta sanctorum di mille storie italiane. Tutti, dalla portineria agli uffici dei dirigenti, avevano letteralmente i visi segnati, lividi.

E no, non erano i segni della battaglia genovese. Perché nessuno di quei poliziotti a Genova ci aveva messo piede. E i loro visi lo testimoniavano: nessun graffio, solo tracce evidenti di furia e vergogna. Questo è uno dei segreti di Stato che tutti conoscono, che pochi hanno raccontato ma con il quale la politica e la stessa polizia non hanno mai voluto fare i conti. Genova fu premeditata. Una gigantesca esercitazione senza regole. E a rivederla adesso dopo un ventennio non salva nessuno: forze dell’ordine, politica, magistratura e media. Fu premeditata da una parte, quella assai minoritaria dei black block ma soprattutto dall’altra, quella che avrebbe dovuto garantire due diritti fondamentali: sicurezza e libera espressione. Facendoli a brandelli entrambi.

Nessuno di noi va a Genova, nessuno di noi che conosce la piazza, che lavora a stretto contatto con l’attivismo politico andrà a Genova. Chiediti il perché. Perché sarà un’esercitazione, senza alcuna regola“. Queste furono le parole precise che pubblicai poco dopo i fatti e che da vent’anni si sono conficcate nella mia testa. Alle quali si aggiunsero queste. “Rimaniamo tutti a casa e in compenso acquistano 300 sacchi da morto e mandano plotoni di ragazzini della celere ideologicamente schierati“. Appartengono ad un alto dirigente della Polizia di Prevenzione, scandite una settimana prima del 19 luglio 2001.

Prevenzione se si parla di Genova è una parola che sa di beffa. Perché tutto era previsto e tutto si fece per evitare di prevenire. Tutti giocarono alla guerra simulata finché la guerra diventò reale. Genova per la sua morfologia urbana fu il campo di battaglia perfetto e l’esercitazione iniziò settimane prima, con un obiettivo: intrappolare l’avversario. Le due parti in campo, gli stati maggiori delle forze dell’ordine e del Social Forum che trattarono percorsi, logistica e una serie di azioni simboliche, provarono ad irretire l’avversario, a mostrarlo come un trofeo conquistato. Giocarono alla politica, costruendosi ognuno un alibi se le cose fossero deragliate.

Perché un patto tra le due parti c’era, chiaro e sottoscritto. Percorsi stabiliti con un simbolico “sfondamento controllato” della zona rossa da parte di pochi manifestanti autorizzati in favore di telecamere. Il Fort Apache dei potenti della Terra sarebbe stato violato in mondovisione e poi tutti sarebbero tornati nella loro bolla. La domanda a cui nessuno dei vertici delle forze dell’ordine ha mai voluto rispondere è questa: perché l’accordo è saltato?

Il retro-pensiero lo avevano entrambi i protagonisti. Gli organizzatori non avevano previsto un servizio d’ordine per possibili infiltrazioni violente ( è un problema di ordine pubblico in capo alla polizia, spiegavano) e forti di quell’accordo mantenevano la sicurezza data dalla presenza di migliaia di telecamere che avrebbero documentato ogni possibile violazione da parte degli apparati. Questa semplice dicotomia ovviamente franò da ogni parte. A distanza di venti anni sono dieci le cose che vanno ricordate, dieci gli avvenimenti principali della storia della più lunga sospensione dei diritti costituzionali avvenuta sotto il regime repubblicano. Eccoli.

1) Il livello della tensione fu fatto salire artificiosamente attraverso i media: rischio attentati, sacche di sangue infetto da tirare contro gli agenti, allarmi bombe. Per oltre un mese si apparecchiò la tavola. Ovviamente non successe nulla di questo.

2) Gli apparati di sicurezza si lasciarono “sfuggire” centinaia di contestatori violenti che misero a ferro e fuoco Genova. Indisturbati. Nessuno del blocco nero venne mai arrestato in flagranza di reato, chi in primo grado venne condannato fu assolto perché non c’erano prove. Non vi fu, notate bene, alcun contatto tra black block e forze dell’ordine.

3) Il corteo autorizzato delle Tute Bianche, quello che secondo i patti sarebbe dovuto sfociare in una breve invasione simbolica nella zona rossa, venne caricato con una violenza mai vista. Il motivo non è mai stato spiegato. Senza la carica di Via Tolemaide la storia di quei giorni sarebbe stata diversa. Piccolo particolare: su quella via alla fine di ore di scontri si conteranno decine di bossoli a terra. Un unicum nella storia degli scontri di piazza, una scena degna di Bava Beccaris.

4) L’esercitazione senza regole, prevista da alti dirigenti del Viminale, si dispiegò domenica 22 luglio. Avendo schierato “l’artiglieria pesante” le forze di polizia non potevano proteggere Genova e i manifestanti dalla velocità da guerriglieri di strada dei black block. Incassato il fallimento del giorno prima e lo sdegno per la morte di Carlo Giuliani, si videro agenti armati e bardati in modo non legale picchiare selvaggiamente adolescenti, signori di mezza età, finanche portatori di handicap. La macchina mediatica fu dispiegata a pieno regime: nelle redazioni dei giornali mentre andava in scena la mattanza genovese arrivò la notizia che il leader delle Tute Bianche, Luca Casarini, si trovava placidamente assiso in un ristorante di Genova altezzosamente lontano dai lacrimogeni e dalle mazzate.

5) Le centinaia di arresti di cui ci si vantava nella sala globale della questura di Genova prevedevano il reato di saccheggio e devastazione, pena massima quindici anni. Centinaia di persone vennero picchiate e torturate nelle carceri secondo un protocollo parallelo. Ad ogni visita dell’inviato del Dap Alfonso Sabella nei luoghi di detenzione gli agenti tiravano su il sipario celando l’orrore. Quando Sabella provò a dimostrare di non aver mai messo piede nei luoghi delle torture si scoprì che i tabulati del suo telefono erano stati cancellati.

6) La mattanza del 22 luglio aveva fatto breccia nell’opinione pubblica. Pur con la lentezza dei modem di allora foto e video invasero internet arrivando ovunque nel mondo bucando la cortina dei media. Bisognava correre ai ripari. La scuola Diaz, il quartier generale degli attivisti e dei media del Social forum fu letteralmente presa d’assalto. Con una semplice scusa: lì ci sono le prove che la devastazione di Genova era un loro disegno. Ma era un depistaggio, fatto pure male. Che se non ci fossero di mezzo sangue, ossa rotte e disturbi da stress durati anni verrebbe in mente Totò-truffa: alla Diaz la polizia lascia bombe molotov e si inventa che un agente sarebbe stato accoltellato. Mezza Italia tira un sospiro di sollievo: i soliti facinorosi, se la sono cercata.

7) Non serve tirare le fila. Basti ricordare che i vertici della Polizia erano rispettivamente Gianni De Gennaro e Arnaldo La Barbera, responsabile della Polizia di Prevenzione. Nel 2001 erano due eroi della lotta alla mafia. La Barbera non si era mai occupato di ordine pubblico, era un “mobiliere“, una vita passata alla Squadra mobile. Non solo: di lì a poco si scoprì che aveva “storto“, depistato le indagini sulla strage palermitana di via D’Amelio obbedendo ad ordini rimasti senza padrone e senza un perché. Anche per Genova La Barbera obbedirà ad ordini superiori e lascerà a casa i suoi uomini più capaci: come per via D’Amelio serviva “vestire il pupo” e spiattellare il colpevole perfetto. Serviva il caos per l’esercitazione senza regole contro migliaia di civili. De Gennaro ha una mente politica, dove La Barbera era un semplice esecutore. Chi conosce l’ex-capo della Polizia sa bene che non è uso prendere ordini dalla politica, semmai è il contrario. Il fallimento della strategia di ordine pubblico rimane ancora adesso una macchia indelebile. Con una semplice domanda come conseguenza: nel 2001 avevamo una polizia composta da dilettanti?
A Genova non ha sbagliato qualcuno. Genova doveva andare così. Si è fatta politica con la violenza e sospendendo le leggi. Risultato? Dopo il 2001 non si è mai più vista in Italia una mobilitazione di massa simile, scollegata dai partiti e di natura internazionale. La lezione di Genova spiega molte cose avvenute in questo inizio millennio.

8) La macchia indelebile è rimasta anche sulla magistratura. Il procuratore di Genova mise a punto, prima del G8, un provvedimento illegale che, preventivamente, vietava i colloqui tra arrestati e difensori. Ne consigliamo la lettura al Ministro Marta Cartabia. Dei 280 arresti del 22 luglio 2001 nessuno venne convalidato, la procura di Genova chiese per tutti la conferma del fermo senza prove e non emise alcun decreto di liberazione. Per tutta la durata del G8 furono sospesi i più elementari diritti, fatto che permise le torture sistematiche nelle carceri. Il caso fu sollevato fino al Csm che stese il suo velo pietoso.

9) La politica di qualcosa si accorse. Rimasero inascoltate le parole di Giancarlo Galan, centro destra, allora presidente del Veneto come quelle del sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, centro sinistra: amministratori capaci di governare il dissenso. Ma la sinistra istituzionale lasciò che tutto venisse gestito “manu militari” quando invece Genova era politica. Sempre per l’insano vizio di scegliere l’accreditamento politico invece che la tenuta del sistema dei diritti. Lo ha fatto negli anni ’70, nei ’90 con Mani Pulite, a Genova nel 2001. Mai stare a sinistra degli eredi del Pci, la prendono come un’offesa personale.

10) Nessuna di queste domande ha avuto soddisfazione nelle aule di tribunale perché era compito della politica, farle e ottenere risposta . E se questo non è avvenuto è per un semplice motivo che si chiama Antonio Di Pietro, proprio lui, il giudice che sognava di ripulire l’Italia. Nel 2006 si oppose, con la sponda di Luciano Violante, alla commissione d’inchiesta sui fatti di Genova che promise nel suo programma di governo. La politica delle questure e delle toghe vinse su quella del Parlamento. E’ così che le macerie di Genova sono ancora tutte lì e nessuno le ha mai volute toccare.