Ora che i responsabili si chiamano i costruttori e che il gioco dell’oca del potere si è definitivamente affrancato dalla scomodissima necessità di essere espressione della volontà popolare, possiamo parlarne a mamma (democratica) morta, ma in attesa di resurrezione, e provare ancora una volta a capire perché l’Italia non è fondata su sacri principi, come il lavoro o la libertà, ma sul modello del miracolo di San Gennaro.

Esageriamo? Mai abbastanza. Ma se uno va a frugare nelle righe del Manzoni, nel Leopardi del discorso sul carattere degli italiani, nel Pinocchio di Collodi e in Italians di Luigi Barzini, trova quel che già sa, ma su cui si preferisce glissare per non scadere nel qualunquismo. Anche il qualunquismo, del resto, è un fantasma del passato e somigliava, per chi lo ricorda, all’abusata battuta di Andreotti sul pensar male che è peccato ma è anche la miglior traccia da seguire.

Lo so, sto prendendola un po’ alla lontana, giusto quanto basta, ma vorrei provare a rispondere alla domanda su che cosa sia la politica italiana. Se ci sia una specificità.
Parto da me stesso, solo per comodità: faccio il cronista da molti decenni. E penso purtroppo – biasimevole, ma lo penso – che il fascismo sia stato per lo più una pagina autobiografica e non un incidente. Palmiro Togliatti, che è stato uno degli uomini più intelligenti di questo Paese, lo sapeva perfettamente e agiva di conseguenza.

Quando cominciai ad occuparmi di politica esistevano ancora due partiti monarchici, un partito apertamente neofascista in camicia nera e botte da orbi per strada, un partito comunista che oltre ogni tempo massimo si è dedicato a nascondere la verità su ciò che era accaduto e che ancora accadeva, avendo la togliattiana scaltrezza di chiamare questa attività “linea editoriale”. Più altri partiti divisi o simbolici.

L’informazione pubblica è nata come conseguenza di quelle origini partitiche per “linee editoriali” consistenti nella legittimazione del diritto di mentire secondo appartenenza di partito.
Quando fu realizzato il primo compromesso storico fra democristiani e comunisti (con coda socialista un po’ riluttante ma non troppo) – sto parlando dell’immediato dopoguerra – si decise saggiamente di non fare troppo casino sulle armi accumulate e conservate ma di privilegiare i momenti di unità. Il secondo compromesso storico fu quello che nel 1970 inaugurò la sciagura delle Regioni fingendo che si fosse scelta una saggia linea di decentramento amministrativo, mentre lo scopo era quello di consentire alle cosiddette Regioni rosse (Emilia, Toscana e Umbria) di amministrarsi da sole ma con una potente iniezione di patrimonio statale.

Un altro momento del compromesso fu quello in cui i partiti non comunisti accettarono anche formalmente che il Pci si alimentasse con fondi sovietici in dollari, che ogni anno venivano cambiati nella banca dello Ior in Vaticano alla presenza di due agenti del Tesoro americano i quali controllavano la genuinità delle banconote (cosa che permise a tutti gli altri partiti di violare concordemente la legge all’insegna del motto di Franco Evangelisti “A’ Fra’, che te serve?”).

Il compromesso storico vero e proprio, elaborato da Enrico Berlinguer come riflessione sul colpo di Stato in Cile (con cui era stato assassinato il presidente Salvador Allende sostituito dalla giunta militare di Augusto Pinochet), finì con la fucilazione del garante Aldo Moro, rapito e interrogato da entità su cui si è deciso di non volere chiarezza (Brigate rosse e non solo).
Persino la morte per ictus di Berlinguer è stata considerata nel suo circolo più vicino come sospetta opera di manine dell’Est.

Poi l’Unione Sovietica ricorse al suicidio assistito con l’evento puramente simbolico passato alla storia come Caduta del Muro di Berlino, sponsorizzato dall’ultimo segretario generale del partito comunista sovietico Michail Gorbaciov, poi scalzato da un colpetto di Stato, e fu così che l’Italia si trovò ad annaspare nella grande inchiesta giudiziaria su misura nata con il nome inglese di Clean Hands e nota poi come Mani pulite. E fu la fine della prima Repubblica, e poi ci fu il colpo di coda di Berlusconi che rovesciò il tavolo apparecchiato per la macchina da guerra di Achille Occhetto, e subito dopo l’inizio di una interminabile guerra civile mentale che ha coinvolto gli italiani in una continua finta insurrezione moralistica, infine l’avvento al potere delle Procure che contano e che seguitano a contare e l’avvento del Grande Clown che ha spento il sorriso e la speranza, alimentando il peggio del peggio di tutti i detriti che si sono accumulati nell’anima degli italiani. Sto parlando del Beppe Grillo.

A questo punto, direte, che cosa fa e che cos’è la politica? La politica è e resta un Big Game, la forma della politica politicante – la “politique politicienne” e “la politique d’abord” che il socialista Pietro Nenni introdusse in Italia dopo l’esilio francese – ma sempre più vuota di contenuti. Ad un certo punto della mia vita ho accettato di andare in Parlamento dove ho trascorso dodici anni ed ho visto dall’interno ciò che per decenni ho raccontato dall’esterno. La vita del Parlamento italiano è per sua natura scialba e insignificante. Nel Parlamento è prima di tutto vietato parlare, perché parlano solo gli autorizzati, e si è convocati al voto (su testi mai letti) con sms dei capigruppo e dei loro vice.

Nel Paese, d’altra parte, non esiste la minima traccia di patriottismo parlamentare. Nessuno è pronto a morire per le regole ma solo per la propria vittoria. E altrove? Anche. Ma dipende. La democrazia parlamentare è una collezione di astuti compromessi creati dai popoli di lingua inglese per difendersi dalle prepotenze del re.

Nei dibattiti che seguo on line vedo sempre più affermarsi questa idea: di fatto, soltanto i popoli di lingua inglese concepiscono la democrazia parlamentare come la loro assicurazione e protezione, perché tutti gli altri popoli che l’hanno adottata, ne fanno tutt’altro uso e non hanno alcun particolare amore per la democrazia. Infatti, in Italia chiunque può annunciare di voler aprire il Parlamento come una scatola di tonno, ma non viene cercato e arrestato dall’Fbi come accade a coloro che il 6 gennaio hanno tentato di aprire il tonno di Capitol Hill e li stanno acchiappando e mettendo in gabbia tutti per sedizione contro il Parlamento. Nel Regno Unito hanno appena celebrato il giorno dei fuochi in cui si ricorda il tentativo ai tempi di Cromwell (siamo nel seicento) di far saltare il Parlamento. Da noi è cresciuto il disprezzo istituzionale per la politica, il Parlamento, i suoi membri considerati dei lavoratori a stipendio, nominati e non eletti, i quali se decidono di agire in modo diverso da quanto comandato dai partiti (che non sono entità riconosciute e controllate, ma associazioni private come una bocciofila) vengono marchiati come voltagabbana, traditori, venduti, comprati, responsabili e – ultima sfornata – costruttori, un po’ come i liberi muratori con cazzuola e grembiulino, nati come Free Masons da noi massoni.

Da noi è venuta su una storia, quella cosa che per primi gli inglesi hanno chiamato “the narrative” e poi noi dietro con narrazione, fatta di mostri invincibili: come la mafia stravinta, i torbidi complotti mai chiariti e che invece non ci vuole molto a chiarire (io l’ho in gran parte fatto a nome e per conto del Parlamento della Repubblica che mi ha ripagato con l’esilio in casa, ma questi sono fatti miei), e naturalmente la presa del potere per via giudiziaria di una casta di funzionari dello Stato che hanno raggiunto il loro rango per concorso e poi per carriere interne.

In una delle ultime guerre fra spagnoli e messicani, questi ultimi gridarono ai colonialisti: “Voi discendete da una barca, noi discendiamo dagli Aztechi”.
In un Paese democratico, tutto il potere senza che ne resti neanche un po’ d’avanzo, appartiene solo al popolo che lo amministra attraverso i suoi delegati, o deputati, o membri del congresso, camere, senato. La leggenda della ripartizione dei “poteri” è una truffa: i tre poteri separati dalla Rivoluzione francese erano quelli di un esecutivo di proprietà del re e dei giudici di nomina regia.

E allora, tornando alla questione che ci interessa, che cosa è e come funziona la politica italiana? Risposta: funziona come il circolo del comico Groucho Marx, il quale diceva che non avrebbe mai voluto far parte di un circolo che accettasse come membri gente come lui. La politica, vista dall’interno del giocattolo lasciando da parte la questione del rapporto fra rappresentante e rappresentato e guardandola per quel che è, risponde a poche regole: primo, quella dei numeri. Qualsiasi coalizione comunque scombinata e inaccettabile – come quella fra Zingaretti e i Cinque Stelle – è garantita dalla prova ontologica: poiché ha la possibilità di esistere, dunque esiste. Le giustificazioni, come la famosa intendence di Napoleone, seguono e non precedono. Per i parlamentari vale il comandamento esistenziale “primum vivere”, noto anche come argomento del tacchino, animale che si rifiuta di accettare il Natale come una festività.

Una regola ulteriore è: tutto fa brodo. L’attuale Presidente della Repubblica ha dovuto affrontare una situazione da far tremare i polsi quando dovette dare l’incarico a uno che saliva col trolley, ma ha dovuto farlo e oggi ci troviamo di fronte a una crisi politica che non è nulla: non è crisi e non è politica, benché Matteo Renzi abbia strepitato senza avere la forza o la determinazione di infilare la spada nel cuore del toro, perché siamo tutti animalisti. Il Palazzo di governo si è trasformato in un social e vive di like e commenti twittati. La lingua usata decade con il decadere della consecutio temporum nell’abbandono dei vincoli che legavano un tempo il condizionale (la politica del possibile) all’indicativo.

Una burocrazia posticcia e abusiva come una favela di ecoterroristi si è insediata al fianco dell’esecutivo, che compiace con la produzione di chilometri di carte elettroniche inutili e incomprensibili, ma che vengono sfornate e misurate un tanto al chilo. L’opposizione liberale manca o è del tutto priva di forze, sicché quella nerboruta, e odiosamente sovranista, anziché usare le sue forze per cacciare un governo che causa disastri e ne aggrava, reclama solo per avere un posto a tavola nella spartizione del malloppo.

Intanto, però, rinsalda il legame populista facendo le bizze sul Mes mentre in Italia si crepa perché la sanità pubblica raccomanda di salvare i forti e lasciar morire i deboli.
Quale conclusione si dovrebbe trarre? Che la democrazia in Italia dovrebbe essere rifondata da un popolo che ci crede? Perché no, crediamoci. Io ci credo. Ma c’è un ostacolo: la generazione politica in scadenza fatica a capire il nuovo e trucca ancora le carte del vecchio, a partire dalla storia di come andarono le cose. È umano. Ma no, in realtà non è umano: è da criceti. Soltanto i criceti corrono per sempre sulla stessa ruota restando dove erano già. Amen.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.