Gli Stati Uniti, come ormai da cinquant’anni, sono preda di una profonda crisi interna cominciata con la teatrale uscita di Donald Trump dalla Casa Bianca e l’arrivo dei democratici con armi e bagagli diversi da quelli del passato. Mio figlio Liam, che ha 16 anni e frequenta la High School e poi viene invitato ai dibattiti nelle grandi università di Harvard e Yale, mi ha detto di essere stato chiamato a discutere in pubblico con i suoi coetanei dei due temi principali.

Primo: vogliamo essere amici o nemici della Cina? Secondo: è un bene o un male che ci prendiamo in carico la difesa della democrazia nel mondo? Questa seconda domanda non riguarda soltanto l’Ucraina, ma anche le posizioni che l’America ha assunto nei confronti di Bolsonaro in Brasile, dell’Iran sconvolto dai più sanguinosi movimenti insurrezionali dal 1980. e dei diversi stati canaglia. E nel frattempo l’America sta cercando la sua identità. Armando l’Ucraina aggredita dalla Russia – si dice nelle scuole e nelle lezioni universitarie visibili anche via Internet – abbiamo mandato un segnale a tutto il mondo avvertendo che non resteremo indifferenti alle aggressioni e ai soprusi, non per candida bontà, ma perché vogliamo smantellare quell’asse degli Stati nemici dell’Occidente, che si è visto a Samarcanda.

Verso l’India gli americani hanno deciso di essere aperturisti e molto amichevoli come hanno già fatto col Venezuela per motivi petroliferi. L’India di Modi è alleata di cinesi e russi, ma ha chiesto aiuto all’America perché si sente soffocare e vede la propria democrazia in pericolo, benché proprio Modi sia un dittatore latente. Naturalmente gli americani sono di manica molto larga quando si tratta di perdonare a se stessi i propri soprusi e le proprie aggressioni, come la guerra all’Iraq e prima ancora quella nel Vietnam. Ma in compenso hanno fatto una spietata autocritica perché non c’è popolo che, più degli americani, sia antiamericano. Il mio viaggio di Natale lo ha confermato: le fratture sociali, razziali e di genere sono sempre più irragionevoli.

Se volete evitare una scazzottata, evitate l’espressione “you people” e preferite invece “you guys”, perché la prima significa “te e quelli della tua razza” o stirpe o gene e può finire malissimo. Le divisioni sull’atteggiamento sessuale determinano una predisposizione alla rissa che è sempre più popolare nella società americana. L’amministrazione Biden ha detto non intende affidarsi alla geopolitica degli europei capaci di portare al potere gente come Hitler o Stalin, e quindi la guerra in Ucraina non finirà certamente perché l’amministrazione Biden smetterà di fornire all’esercito di Kiev tutto ciò di cui ha bisogno per difendersi, anche se non per contrattaccare. Ma unna guerra è un guerra: ieri la Russia è stata colpita dal trauma di centinaia di giovani ufficiali morti in un condominio in Ucraina e i generali si accusano l’un l’altro di incapacità: “Non abbiamo perso tutti questi nostri soldati perché il nemico è più astuto o coraggioso ma perché siamo stati più stupidi”.

Letta politicamente, questa notizia militare conferma che l’esercito russo continua a soffrire per le sue carenze arcinote, dall’impreparazione alle armi inadeguate, dall’assenza di motivazione all’uso disperato di mercenari. Gli Stati Uniti sono stati per due anni, dalla fine della Presidenza Trump ad oggi, sconvolti dall’apparente sconfitta sul teatro del mondo delle democrazie fondate sulla libertà e il rispetto della singola persona. Hanno di fronte un’ oppositore come il presidente cinese Xi Jinping che si dichiara campione del rifiuto della democrazia sostenendo che consentire le divisioni e le opposizioni impedisce l’armonia, il principio confuciano per lui associato al marxismo leninismo più rigido. Di qui la domanda ai ragazzi americani su come vedono il loro futuro, se con una Cina armata di fucile o una Cina in festa fra dragoni volanti e fuochi artificiali.

Ma stando al New York Times, sensibilissimo registratore degli umori in campo democratico, l’America ha scelto di liberarsi di Trump per tornare ai valori fondamentali dell’interventismo in nome della libertà. E dunque questo 2023 sarà l’anno della riconferma della scelta definitiva: stare dalla parte delle democrazie aggredite mostrando di desiderare la pace ma di non avere paura della guerra. Essendo io un frequente viaggiatore americano, non avrei dovuto stupirmi nel vedere i luoghi di raccolta per festeggiare i veterani, una categoria che da noi non esiste e che negli States costituisce uno strato sociale visibile nei campi di bowling come nel “Grande Lebosky”. Sono gli uomini che hanno combattuto le guerre dal Vietnam in poi (i veterani della Corea e della Seconda guerra mondiale sono ordinatamente sepolti nei loro dedicati ai cimiteri) e mi ha sorpreso vederne ancora tanti, giovani, grassi, le gambe come stuzzicadenti, sulla loro sedia a rotelle bevendo birra.

Noi europei in genere ci leghiamo agli stereotipi dell’orrore americano: le stragi, le banalità della provincia, l’uso della pena di morte, e la cinematografia, e la gigantesca produzione di arte, spettacolo. La metà dei libri che trovo da Barnes&Nobles però è manualistica: “Come si fa, a”. L’altra è riflessione sul passato, il presente e il futuro. Divisi, spaccati, odiandosi, gli americani pensano molto. La coesione del paese va malissimo: una mia amica nera di New York mi ha detto che ormai i giovani bianchi e neri, benché frequentino le stesse scuole e siano reciprocamente rispettosi e cortesi, si detestano e non si mescolano. La morale interna dei gruppi etnici sconsiglia le coppie miste, un tempo adorate come prova dell’uguaglianza.

La vittoria dei democratici e stata un fatto reale e profondamente odiata dai repubblicani, parte dei quali sembrano prossimi all’insurrezione. E tuttavia dopo la vittoria democratica dopo la constatazione che nel mondo la libertà va assottigliandosi più velocemente dei ghiacciai, il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca hanno assunto una atteggiamento molto volto alla pace ma impostato in modo da far capire gli avversari (non soltanto la Russia ma anche l’Iran e la Cina) di essere disposti, se trascinati per la giacca, a combattere di nuovo. Ma oltre i sentimenti e gli atteggiamenti dell’America cominciano ad entrare in gioco quelli del Giappone, un paese che si sta riarmando sui livelli pre-guerra , con conseguente ira dei russi, tant’è vero che ieri il ministro degli Esteri Andrey Rudenko ha parlato di rappresaglie militari sulle frontiere del Pacifico, un teatro di guerra mai chiuso ufficialmente dopo il 1945.

Il Giappone ha anche detto che qualsiasi cosa decidano gli americani, per loro Taiwan non si tocca e per questo gli americani sono sia lieti del sostegno militare sia preoccupati per la determinazione giapponese. Ma l’America ha comunque fatto una scelta ideologica: gli Stati Uniti si sentono come il personaggio di John Wayne nell’uomo tranquillo, storia di un pugile che aveva appeso i guanti ma che troppi arroganti costringono a tornare sul ring e vincere. I russi finora non hanno dato risposte irreversibili agli Stati Uniti ma mantengono anzi ben aperti tutti i canali non visibili ai media e sanno come centellinare i rischi. Russi e americani, del resto, sono da sempre grandi giocatori di poker, Putin ha riarmato gli adolescenti delle scuole medie e dunque il 2023 si presenta come un mondo con l’arma al piede e poche idee in testa.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.