La lettura che Alberto Asor Rosa fa di tre racconti di Joseph ConradLinea d’ombra, Cuore di tenebra, Tifone – nel suo ultimo libro, L’eroe virile. Saggio su Joseph Conrad (Einaudi), è così intrigante che ho dovuto rileggerlo per trovare la linea sottile che divide l’autore dall’interprete. Se Conrad ha voluto mettere in scena ancora una volta “l’eroe borghese”, seguendolo mentre “recita il suo dramma di esaurimento e infine di (inevitabile) sconfitta”, ma offrendogli un’ultima occasione per “mettersi a rischio”, “misurarsi con una forma nuova” di “destino” – la natura, l’estraneo, il diverso che vive ai margini della civiltà occidentale -, qual è per Asor Rosa il rilievo che può aver oggi quella prova eroica di “virilità” giunta al suo “tramonto”?

«La categoria del dominio – si legge nelle prime pagine del libro –, e della sua sconfitta, si rincorre continuamente nelle forme più diverse, in questi tre libri (…) l’Occidente celebra la sua saga estrema e finale». Sul confine incombente e minaccioso della sua scomparsa, la virilità consisterebbe «nel tenere fede eroicamente al rigore di una missione senza scopo né contenuto, ad un amore di cose e di persone, che non riesce a farsi concreto, a vivere fino in fondo di vita propria». Ma di quali amori parlano gli “eroi bianchi” nei racconti di Conrad? L’oggetto, più che la donna, sono «una nave, il mare, il proprio destino o il mondo delle tenebre, che l’uomo stesso produce, per curiosità o necessità, per poi restarne vittima». A un certo stadio psicologico e antropologico della loro evoluzione, sembra che gli uomini bianchi abbiano dovuto mettersi in rapporto e misurarsi con un nemico superiore alle loro forze: elementi inesplorati come la natura, in particolare il mare nella bonaccia e nella tempesta, o individui o ambienti non bianchi, considerati un’umanità inferiore.

Per quanto possa non piacere, questo tipo di eroe, dice Asor Rosa, continua ad esercitare una «invincibile seduzione» e a far sentire «meno ricusabile e abbietta la condizione virile». In questo – aggiunge – «forse si misura la nostra attuale miseria». In un’epoca come la nostra, messa di fronte agli orrori delle guerre, delle stragi, delle crisi umanitarie e a una recrudescenza della violenza maschile, a partire dagli ambienti domestici, non è facile accostare senza riserve il fascino che può avere ancora quella “linea d’ombra” che apre la strada all’età virile, la lotta contro circostanze impreviste, fuori dall’abitudine e dalla normalità, la “resistenza morale” con cui “il Giovane” protagonista del racconto affronta le difficoltà del suo lavoro di marinaio, il coraggio e la “fede” con cui si protegge dalle disillusioni e dalla disperazione. Una «virilità pienamente conseguita», commenta Asor Rosa, non può sottrarsi a una logica umana, un «comune collettivo» che supera il comportamento del singolo e che ha un suo sistema di regole. È solo nel racconto successivo che “l’ombra” sembra mostrare il suo fatale precipitare nella “tenebra”, e il temperamento virile lasciare il posto alla violenza e alla sopraffazione.

«Le tenebre – scrive Conrad – si manifestano ogniqualvolta si affrontano e si rischiano l’esplorazione e la conseguente appropriazione di un mondo sconosciuto e desiderato, per l’istinto di potenza dei conquistatori, siano essi i romani nelle loro triremi o le potenze occidentali in vista della nera Africa». La conferma viene dallo stesso Asor Rosa: «Significa che se si è “bastantemente virili” la pulsione dell’esplorazione e della conquista non manca mai». In Cuore di tenebra viene in primo piano, in modo inequivocabile, quella «voragine senza fine di violenza e di infamia» che è stata, ed è tuttora, la “missione civilizzatrice” dell’Occidente nei confronti di un mondo considerato “primitivo”. La figura di Kurz incarna alla perfezione l’ambiguo confine tra la luce e l’oscurità più profonda nelle imprese dell’“eroe virile”.

Partito per terre sconosciute con un programma di “Redenzione dei Selvaggi”, se da un lato finisce egli stesso per cadere “in possesso delle tenebre”, conquistato e penetrato dalla terra che avrebbe voluto di piegare alla rapina del “mercato” dei bianchi, dall’altro non può che riconoscere l’orrore di quella “grottesca invasione”. Nella ricostruzione di Marlow, a cui viene affidato il racconto dell’avventura africana, viene allo scoperto con chiarezza che la tenebra, invece di separare, unifica e contamina. Se la differenza tra i popoli la si guarda non dai colori e dalle forme, ma dai comportamenti, «laggiù – sono le sue parole – ci si trova in presenza di qualcosa di mostruoso e di libero (..) Quella gente saltava, urlava, proiettava, faceva certe smorfiacce orrende; ma quel che vi stringeva il cuore era proprio il senso della loro umanità, non altra dalla nostra».

Nel racconto non mancano le donne, ma lo sguardo è tutto puntato “sull’eroe virile”, animato dalla conquista del dominio e del potere, mentre le donne osservano da lontano “l’eroismo fanatico dei loro amanti”. E qui, dopo un accenno più rapido a Tifone, dove il protagonista è un uomo comune, a cui è toccato affrontare un’esperienza eccezionale, viene la domanda che compendia, e in qualche modo rivela, il senso di una lettura capace di cogliere i molteplici, contraddittori aspetti di quella che è stata storicamente l’“invenzione della virilità”, la difficoltà con cui gli uomini, consapevoli di millenni di dominio del loro sesso – ancora pochi, a dire la verità -, prendono congedo da tutto ciò in cui hanno creduto e in cui hanno amato. «Si potrebbe dire (forse) – si chiede Asor Rosa -: Kurtz è l’esemplare più alto, più estremo, più anomalo, più deforme, più abbietto di eroe virile. Questo significa che l’eroe virile, oltre una certa misura, – come tutte le cose del mondo, del resto, – degenera? (…) Oppure vuol dire che nell’eroe virile sono sempre presenti potenzialmente grandezza d’animo e abiezione?».