Anche il dibattito sul green pass, come tanti altri, si colora di tratti ideologici. E invece questo, ancor più di altri, è un caso in cui la pretesa manichea di schierarsi tra bene e male non ha alcun senso, se non quello di gonfiare il petto alle tifoserie e lasciare campo libero all’irrazionalità. Cominciamo dall’alto: la Costituzione, agitato come un totem dagli uni e dagli altri. La verità è che la Carta, in questa materia non prevede automatismi. Non impone e non esclude nessuna delle scelte possibili. I tifosi se ne facciano una ragione.

La Costituzione invece impone, questo sì, molti paletti, che solo abbandonando l’approccio talebano possono essere apprezzati e rispettati. La giurisprudenza della Corte è chiara (sent 5/2018). Quando ci sono in gioco due interessi protetti, ma virtualmente contrapposti (la libertà individuale e l’interesse della collettività) ogni intervento deve ispirarsi al principio di ragionevolezza e di proporzionalità. Il sacrificio di un interesse è ammissibile solo nella misura in cui serva ragionevolmente a tutelare l’altro. Ciò implica valutazioni accurate del rapporto costi/benefici (non tanto e non solo economici, quanto, appunto, di sacrificio degli interessi) e nel rapporto mezzi/fini (o sacrifici/risultati).
Si tratta di valutazioni complesse, in parte opinabili in una materia in cui le certezze scientifiche non sono sempre evidenti. Per questo la Corte costituzionale offre indicazioni “operative” molto stringenti anche in tema di vaccini. Innanzitutto il tipo di intervento, a seconda dei casi può modularsi in modo via via più stringente: dalla persuasione (raccomandazioni), fino all’obbligo vaccinale, passando per le tecnica degli oneri (in cui rientra il green pass): sei libero di vaccinarti, ma se vuoi svolgere una certa attività hai l’onere di farlo.

Il secondo paletto è quello della trasparenza delle informazioni. Le scelte devono essere non solo informate (sulla base delle evidenze scientifiche e tecniche) ma anche esposte alla valutazione dell’opinione pubblica, perché esse hanno una ricaduta politica e dunque, in una democrazia liberale, sono soggette al principio del controllo e della responsabilità.
Per questo la Costituzione impone (art. 32) che le limitazioni siano stabilite da “disposizioni di legge” (non Dpcm, non linee guida o altri strumenti simili). Anche il principio di precauzione rileva, ma non bisogna dimenticare che è un principio a doppio taglio. Può essere una buona precauzione aumentare la vaccinazione, ma può essere una buona precauzione evitarla per quei soggetti (per esempio i più giovani) più esposti (anche per ragioni di durata della loro vita) ai possibili effetti collaterali del vaccino. Effetti sui quali ci sono molte incertezze. Inoltre l’interesse della salute della collettività, in nome del quale può essere vietata la libertà di autodeterminazione individuale, non è presunto, va verificato in concreto. Non può cioè fondarsi sull’idea che sia interesse della collettività che ciascun cittadino sia sano. Le scelte sulla salute propria sono libere e individuali. Altrimenti si vanificherebbe il diritto soggettivo e si entrerebbe nella logica dello Stato etico. L’interesse della collettività va valutato in termini di costi “per gli altri” delle scelte individuali. Questi costi possono essere gli effetti di contagio letale da parte di non vaccinati o l’insostenibilità per il sistema sanitario delle conseguenze della mancata vaccinazione. Scendendo dall’iperuranio, ecco alcune dei punti critici del dibattito.

Primo, la trasparenza. È dall’inizio della pandemia che il dibattito e le decisioni negli organismi tecnici che preparano le decisioni politiche (vedi il Cts) sono prese nelle segrete stanze senza che si possano conoscere i motivi della decisione se non “a babbo morto”. Ancora oggi i verbali del Cts vengono resi noti 45 giorni dopo la seduta. Perché? Come può il Parlamento e l’opinione pubblica (anche qualificata: istituzioni scientifiche, esperti ecc.) conoscere e dibattere delle soluzioni politiche se non si conoscono i presupposti tecnici di quelle decisioni?

Secondo. La scelta di metodi più vincolanti rispetto alla politica della persuasione si giustifica se la persuasione non basta. E allora va fatta una verifica accurata del tasso di ostilità alla vaccinazione. Uno studio de lavoce.info (di Moroni e Vezzoni) dimostra che, in Italia, il numero di chi non vuole vaccinarsi è molto sovrastimato dagli organi di informazione. Ed è di gran lunga inferiore a quello francese, ad esempio. Tanto più che una misura come il green pass, per non essere discriminatoria deve farsi carico dell’ipotesi che chiunque voglia vaccinarsi possa farlo tempestivamente e che non debba essere costretto a pagare un tampone ogni volta che voglia andare a prendersi un caffè.

Terzo. Il contemperamento tra i vari interessi alla luce del criterio della proporzionalità dev’essere fatto alla luce di criteri empirici rilevanti. In questo senso, in un momento in cui il carico sul sistema sanitario è prossimo allo zero (2 % delle terapie intensive e dei ricoveri) e non si conoscono gli effetti di letalità dei contagi in aumento per le nuove varianti, il solo criterio della diffusione del virus non è più sufficiente come nel periodo dell’esplosione della pandemia. Anche distinguere tra classi di età per modulare le misure non sarebbe discriminatorio, anzi, se si appurasse, come sembra, che gli effetti collaterali sui più giovani possono essere diversi (nel breve e nel lungo periodo).

Tutte queste considerazioni impongono equilibrio e valutazioni ponderate. Del resto, come la giurisprudenza interna e comunitaria ricorda, simili scelte devono essere sempre rivedibili a seconda dell’evolversi della situazione. L’esperienza degli altri paesi ci dimostra che le soluzioni sono tante e diversamente modulate. Se riusciremo a uscire da questa insensata guerra di religione di un dibattito polarizzato, probabilmente usciremo anche prima e meglio dalla guerra alla pandemia.