Le reazioni suscitate dalla ordinanza del Tribunale di Napoli che, a seguito dell’illegittima esclusione dall’assemblea degli iscritti al M5S da meno di sei mesi, ha sospeso le modifiche dello Statuto approvate nell’agosto scorso e la conseguente nomina di Giuseppe Conte a suo Presidente, meritano qualche puntualizzazione anche ai fini di una riflessione più generale sull’annoso tema sulla democrazia all’interno degli attuali partiti politici.

In primo luogo si lamenta la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. sui partiti politici quando invece esso non contiene un espresso riferimento né ad una legge in tal senso né alla natura democratica della loro organizzazione interna. Quella a favore dell’autonomia dei partiti fu una precisa scelta dell’Assemblea costituente, la quale respinse le proposte per un riferimento esplicito alla democrazia nei partiti per il timore, specie del Partito comunista, che il Governo avrebbe potuto in tal modo ingerirsi nei loro affari interni fino al punto da metterli fuori legge. E del resto, quando la Costituzione ha voluto imporre la democrazia all’interno di una associazione, l’ha fatto espressamente, imponendo ai sindacati di avere “un ordinamento interno a base democratica” per potersi registrare (art. 39 Cost. rimasto inattuato a causa degli stessi timori da parte principalmente della CGIL). Non c’è, dunque, alcuna inadempienza costituzionale da parte del legislatore.

Peraltro, è parimenti inesatto affermare che oggi non esista una legge sui partiti politici. In occasione della riforma del finanziamento pubblico dei partiti (2012), fu stabilito che vi potessero accedere solo i partiti dotati di uno statuto che contenesse taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, soggetti alla verifica di una apposita Commissione di garanzia ai fini della loro iscrizione nel Registro nazionale dei partiti. Si tratta, invero, di contenuti minimi e esteriori (composizione e attribuzioni degli organi interni, cadenza delle assemblee, diritti e doveri degli iscritti, modalità di selezione delle candidature, ecc.), privi di specifiche indicazioni sull’effettivo funzionamento democratico dei partiti. Una disciplina dunque basilare, molto soft e per questo poco incisiva, come confermano gli statuti finora adottati, improntata al massimo rispetto dell’autonomia organizzativa e procedurale dei partiti.

Il M5S si è sempre potuto sottrarre al rispetto di tali pur minimi contenuti democratici interni imposti per legge poiché ha finora rinunciato ad accedere al finanziamento pubblico indiretto tramite il c.d. due per mille e le donazioni fiscalmente agevolate (salvo comunque continuare a fruire dei contributi erogati dalle camere ai gruppi parlamentari per le loro attività latamente politiche). Per partecipare alle elezioni politiche il M5S non deve dunque dotarsi di uno statuto conforme alla legge (come in modo più efficace prevedeva la precedente legge elettorale, sul punto improvvidamente abrogata dalla attuale) ma solo presentare una dichiarazione minimale che indichi il legale rappresentate del partito e la composizione e le relative attribuzioni dei suoi organi.

La recente decisione di accedere al finanziamento pubblico (sembra però non destinata a produrre effetti per il corrente anno) impone dunque al M5S di affrontare una volta e per tutte il tema della sua organizzazione interna. Una struttura particolarmente complessa, in cui la distribuzione dei poteri tra Garante, Presidente, Comitato direttivo e Comitato di garanzia determina un precario equilibrio e che esprime l’irrisolta, e forse irrisolvibile, esigenza di conciliare l’anima assembleare/movimentista dell’“uno vale uno” e l’istanza fortemente dirigista che ne caratterizza i vertici. Il risultato è tutta una serie di decisioni calate dall’alto che la base degli iscritti è chiamata solo a ratificare, pronunciandosi su quesiti formulati talora in modo volutamente tendenzioso e con percentuali di partecipazione al voto quasi sempre risibili rispetto sia al numero degli aventi diritto sia, soprattutto, degli (ormai in gran parte ex) elettori.

Che questa ossessiva, leguleia pretesa di disciplinare tutto e tutti si sia tradotta in regole incerte, che lo stesso M5S non ha potuto o voluto rispettare, “incartandosi”, lo dimostra la lunga sequenza di sentenze che l’hanno visto soccombere, grazie alla asfissiante “marcatura a uomo” dell’ormai mitico avv. Borré e di cui l’ordinanza del Tribunale di Napoli costituisce solo l’ultimo anello. Sotto questo profilo, i timori espressi da taluni commentatori a seguito di tali sentenze circa un’eccessiva ingerenza dei giudici sull’attività interna ai partiti non hanno ragione d’essere. Premesso che il rispetto delle regole interne, poste a garanzia di tutti, e specialmente delle minoranze, non può essere interamente affidato alla lotta politica dove prevale la forza dei numeri e non la forza del diritto, i giudici si sono potuti pronunciare grazie ai varchi loro offerti da regole organizzative e procedurali non ben coordinate tra loro e talora volutamente oggetto di forzature, come nel caso in specie della mancata approvazione del regolamento per escludere dal voto gli iscritti da meno di sei mesi, frutto della diffidenza da sempre nutrita verso chi avrebbe potuto “inquinare” il risultato elettorale atteso.

In tutte queste occasioni, il giudice si è sempre potuto pronunciare non tanto invadendo la legittima autonomia decisionale dei partiti in nome di un’astratta assenza di loro democraticità interna, quanto piuttosto in forza della difformità dei provvedimenti impugnati rispetto alle regole che lo stesso M5S si era dato. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. L’incidenza dei giudici non dipende quindi dalla natura legislativa o statutaria delle regole interne quanto dalla loro chiarezza, coerenza e, non ultimo, dalla capacità di rispettarle, anche quando questo intralci i piani prestabiliti, senza ricorrere a inutili quanto – alla resa dei conti – controproducenti forzature procedurali.
Quello della democrazia interna ai partiti politici è certamente uno dei tasselli fondamentali – insieme alla legge elettorale, alle norme regolamentari sui gruppi parlamentari ed alla riforma del finanziamento pubblico – se si vuole rimediare alla attuale debolezza dei partiti, rendendo le loro necessarie leadership criticabili e contendibili, anche attraverso i canali digitali.

L’importante è che, nel superare l’attuale disciplina legislativa – chiaramente inadeguata nel considerare i partiti mere associazioni non riconosciute, ignorandone il fondamentale ruolo di partecipazione democratica – si trovi un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti dei singoli e l’autonomia del partito, così da evitare il rischio di “giuridicizzare” eccessivamente dispute per loro natura intrise di politicità. In tal senso, quello del M5S è esempio da non seguire.