Il dopo Rousseau e il quasi dopo Di Maio
Grillismo: terremoto alla nascita, terremoto ora che muore

L’irrompere del movimento grillino sulla scena politica, una decina di anni fa, diede una scossa imprevista e formidabile alla politica italiana. C’è chi dice che fu una scossa positiva, perché costrinse i partiti a rinnovarsi, a cambiare il proprio messaggio, a staccarsi un po’ dal Palazzo. C’è chi – come me – pensa invece che fu una scossa negativa, che diede carburante a tutte le spinte populiste e reazionarie, che mise fuori gioco l’intellettualità più pensante, che trasformò la politica in una gara fangosa alla demagogia inconcludente e spesso molto volgare. Del
resto il movimento grillino non fece irruzione sulla scena politica gridando libertà o uguaglianza, o fraternità: fece irruzione gridando vaffanculo, cioè rivendicando la propria volgarità, la rozzezza del proprio linguaggio e il rifiuto di ogni sofisticazione nel pensiero. Pretese di affermarsi con due sole idee chiare: la richiesta di spazzare via la classe politica e l’anelito di onestà. Dove per onestà si intendeva essenzialmente una cosa: impedire alla politica di essere finanziata. Le due idee, in gran parte, coincidevano: in definitiva tutte e due tendevano alla abolizione della politica organizzata e dunque della base storica della democrazia. Il paradosso oggi è che gli annunci di crollo del Movimento Cinque Stelle rischiano di essere una nuova scossa alla politica italiana, identica a quella che ne accompagnò la nascita.
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Il risultato della votazione on line che l’altra sera ha sconfessato Di Maio e costretto lo stato maggiore grillino a presentare liste autonome in Emilia e in Calabria, rovesciando la propria strategia a 60 giorni dal voto, è sorprendente per almeno tre motivi. Il primo motivo è che una decisione così importante viene affidata, più o meno, al caso. Alla consultazione sulla piattaforma Rousseau hanno partecipato meno di 30mila persone, cioè neanche lo 0,5 per cento degli elettori grillini. Un campione così ristretto e casuale di partecipanti rende una consultazione elettorale qualcosa di molto simile a un sorteggio. Parlare di maggioranze o minoranze è del tutto infondato, e fa un po’ sorridere. Il secondo motivo è che non si capisce perché un gruppo dirigente di un
partito, che da un anno e mezzo si è assunto l’incarico di governare il Paese, rinunci alle proprie competenze e responsabilità e rinvii a un minisondaggio online la decisione sulle liste elettorali. Il terzo motivo della sorpresa riguarda l’argomento della consultazione: può il primo partito politico italiano (così risulta dalle ultime elezioni politiche) porsi la domanda se partecipare o no alle elezioni? Sembra quasi uno scherzo. Del resto è tutta la discussione che si svolge attorno al Movimento ad assumere toni più da favola umoristica che da cronaca politica. L’articolo pubblicato ieri da quello che forse è l’unico vero capo politico del Movimento, dopo la morte di Casaleggio – e cioè Marco Travaglio – è quasi farsesco. Travaglio, con toni agitatissimi, scrive un editoriale sul Fatto non per svolgere un’analisi politica ma per compilare un manuale di istruzioni per i dirigenti pro-tempore dei Cinque Stelle. E spiega per filo e per segno come uscire dagli impicci, proponendo iniziative politiche dettagliatissime, che giungono fino all’indicazione di quali assessorati chiedere e su quali punti pretendere modifiche dei programmi al Pd. La strategia di Travaglio – unità col Pd – che pure è l’unica sul campo, è ragionevolmente destinata a sciogliersi come neve. E non è probabile nemmeno un intervento di Grillo, in extremis. Beppe Grillo sembra ormai scoraggiato e deciso a tornare al suo vecchio mestiere. È riuscito miracolosamente, pur essendo privo di mezzi politici, a dettare legge alla politica italiana, e gli basta. Ora può ritirarsi. Lui in fondo è sempre stato quello: un burlone. E mai lo ha negato.
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Il problema è che la scomparsa dei grillini, che ormai sembra vicina, comporta gli stessi contraccolpi che comportò la loro comparsa. Essenzialmente un contraccolpo: la paralisi del governo. Cioè esattamente quello che già successe con l’esplosione del loro successo, in particolare alle elezioni del 2013. È da allora che in Italia ogni governo vive appeso a un filo (se si esclude, forse, la parentesi renziana, che però fu breve). Senza maggioranza e senza un programma politico. In questo clima di vuoto e di rissa senza obiettivi si sono squagliate la destra e la sinistra tradizionali. La destra si è piegata alla strategia autoritaria e radicalmente reazionaria di Salvini. La sinistra brancola nel buio e cerca, annaspando, la salvezza fuori da se stessa: ora nel renzismo, ora nel grillismo, ora nella fortuna, ora nella magistratura, infine, forse, nelle sardine. Come si spiega questo guazzabuglio? Credo che si spieghi in modo molto semplice. I Cinque Stelle sono stati un grandioso movimento di massa pieno di passione e del tutto privo di idee. Il cui collante e il cui segreto (segreto del successo) è stato solo la ricerca del potere. Il potere come salvezza, come lavacro, come contrappasso, come punizione dei reprobi. Il potere come dovere, come sacrificio. Da conquistare e da difendere coi denti. Ora esaltando la propria purezza ora il compromesso. In politica un movimento votato solo al potere – se vige un regime democratico – non può resistere al tempo e può produrre danni incalcolabili al campo di battaglia. Questo è avvenuto. I Cinque Stelle hanno scassato tutto: idee, valori, strategie e tattiche dell’intero schieramento politico. E ora scompaiono lasciando il deserto. Nel quale, forse, riesce a sopravvivere solo la creatura a loro più simile: Matteo Salvini.
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