A seguito del recente meeting dei ministri della Difesa della NATO, il Segretario Generale Mark Rutte ha dichiarato alla stampa: “Chiaramente ieri sono successe molte cose (come la telefonata fra Trump e Putin e poi fra Trump e Zelensky, nda) e si discuterà molto nei prossimi giorni e settimane. Ma c’è una convergenza: tutti vogliamo la pace e che Kiev sia nella migliore posizione possibile quando i negoziati inizieranno. C’è anche accordo sul fatto che non ci debba essere una Minsk 3, che l’accordo sia sostenibile e che Putin non possa prendere altra terra in Ucraina”.

Il Protocollo di Minsk

L’evocazione di una potenziale “Minsk 3” richiama i precedenti tentativi di soluzione negoziale alla crisi russo-ucraina. Dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e l’insorgere di movimenti separatisti nel Donbass, la comunità internazionale cercò di limitare l’escalation attraverso il Protocollo di Minsk I, mediato da OSCE, Francia e Germania. L’obiettivo era duplice: cessare immediatamente le ostilità e avviare un percorso negoziale. Tuttavia, la vaghezza degli impegni, la mancanza di meccanismi di controllo efficaci e le continue violazioni fecero naufragare ben presto il patto firmato nella capitale bielorussa, rendendo l’accordo inefficace.

Il fallimento di Minsk II

Nel febbraio 2015 si tentò un nuovo compromesso con il Protocollo di Minsk II, che prevedeva il cessate il fuoco, il progressivo ritiro delle armi pesanti e il disarmo delle forze in campo, misure per lo scambio di prigionieri e riforme costituzionali per garantire maggiore autonomia al Donbass. Anche questo accordo, però, nonostante le ambizioni più “politiche”, fallì per le stesse ragioni del precedente: ambiguità nei termini, mancata attuazione delle misure previste e soprattutto, l’assenza di un chiaro riconoscimento del ruolo centrale di Kiev nel futuro dell’Ucraina.

L’intensità del conflitto

Ed è proprio su questo punto che Rutte ha voluto mettere l’accento: coinvolgere Kiev deve rimanere un elemento imprescindibile per legittimare qualsiasi processo di pace. Sia Minsk I che Minsk II, avendo escluso o marginalizzato l’Ucraina nel processo decisionale, non hanno fatto altro che abbassare l’intensità del conflitto, di fatto provando semplicemente a posticiparne le recrudescenze. Mentre era evidente la necessità di una soluzione politica condivisa e globale, gli accordi si sono concentrati in maniera quasi esclusiva su misure militari e di sicurezza, tralasciando aspetti cruciali legati ad una possibile riconciliazione nazionale, o a una riforma dell’assetto istituzionale ucraino. Un’intesa duratura non può prescindere dal coinvolgimento attivo del governo ucraino, ma nemmeno da questi elementi.

Gli interessi

È ovvio che la risoluzione dovrà tenere conto di interessi regionali e internazionali, che, se non gestiti con realismo, rischiano di compromettere gli sforzi diplomatici, ma bisognerà scogliere i nodi ancora irrisolti – il futuro del Donbass o il ruolo dell’Ucraina nel sistema di alleanze occidentali – mantenendo salda una convinzione: Kiev rimane il governo legittimo di un Paese sovrano. Escluderla o limitarne il ruolo equivarrebbe a sminuire un principio fondamentale del diritto internazionale, alla base dei valori europei.

Anche solo già ammettere di voler evitare “una Minsk 3” equivale a fare ammenda di un approccio diplomatico miope e mediocre che ha contribuito, negli ultimi anni, a rendere il modello europeo, sempre meno attraente e influente. La responsabilità a cui sarà chiamato chi siederà al tavolo delle trattative è storica: cedere a compromessi insostenibili significherebbe non solo svendere l’Ucraina all’aggressore russo, ma anche rinunciare a una pace autentica in favore di una fragile tregua imposta con la forza. Più ancora, sarebbe un colpo mortale alla credibilità dell’UE, che si troverebbe a dover affrontare la prova più dura dalla sua nascita: dimostrare di esistere non solo come progetto economico, ma come attore politico globale capace di difendere i suoi valori fondamentali, a partire dalla sovranità e dall’inviolabilità dei propri confini.