Silurato l'Avvocato del Popolo
Guerra nel M5S, Di Maio soffia il partito a Conte: l’ex premier riconosciuto leader solo da Letta
Il ticket è tornato. Ed è quello delle origini: Luigi Di Maio e l’ex ministro e sottosegretario Vincenzo Spadafora. Rimasto fuori dal governo Draghi, già sacrificato – specie nell’ultima parte – dal Conte 2, Spadafora sembrava essersi un po’ eclissato. Eppure è stato un pezzo importante della crescita politica di Luigi Di Maio, prima il consigliere politico che gli ha spiegato perché “Dibba” era diventato unfit per il movimento salito al governo; poi l’angelo custode e il consigliere, a palazzo Chigi, di tanti passaggi difficili.
La pandemia e l’scesa del governo Draghi lo aveva messo un po’ in ombra. Ora è tornato con un libro che ha un titolo che è già un programma (Senza riserve/In politica e nella vita) e dove, dicono i parlamentari che lo hanno potuto visionare, «è molto duro con Giuseppe Conte e la sua non-linea da cui emerge soprattutto una cosa: la sua ambizione». L’altra sera, presentandolo a Che tempo che fa, oltre a fare coming out sulla propria omosessualità («per alleggerire il mio impegno politico da un fastidioso brusio di fondo») Spadafora ha spiegato di non aver alcuna intenzione di lasciare la politica. Anzi. Ha dato un paio di suggerimenti a Conte e lo ha messo in guardia dal rischio “scissione”. Evocata in tanti retroscena, la scissione del Movimento è stata articolata in una intervista tv. Né smentita. Né fraintesa. «Il rischio scissione nel Movimento c’è – ha avvertito Spadafora – è in corso una dialettica molto forte e io lavoro affinché ciò non avvenga». Però, è stato il passaggio successivo, Conte la smetta di fare one man show, «non interpreti la sua leadership in modo solitario o con il suo ristretto gruppo e coinvolga tutti». Attorno a Conte, per dirla in breve, bisogna «costruire un progetto» perché «mi chiedo cosa diremo per convincere gli elettori a votarci la prossima volta, non basta un leader o dei nomi, serve un progetto serio». È stato chiaro che la notizia non era il coming out bensì l’avviso non richiesto a Conte. Sedici ore di silenzio. Poi è arrivata la replica di Di Maio che ha “abbracciato” l’ex spin doctor immaginando «tante sfide da vincere insieme» perché «persone come lui vanno custodite e valorizzate».
Per chi sa annusare le dinamiche interne al Movimento, l’asse ritrovato Di Maio-Spadafora «deve preoccupare Conte». E se «uno unisce i puntini, la figura che esce fuori assomiglia più a Luigi di Maio che a Conte…». Nel Transatlantico restituito alle pause dell’aula – a volte più utili dell’aula stessa – e ai capannelli dei parlamentari, e tra parlamentari e giornalisti, preziosissimi per capire umori e retroscena, i più attivi sono i deputati 5 Stelle. Quei del Pd passano veloci. Federico Fornero si affaccia veloce alla buvette (riaperta anche quella dopo un anno e mezzo). Qualche assistente parlamentare e un paio di Forza Italia. È lunedì, del resto. Il ritorno al gran completo è previsto tra oggi e mercoledì quando ci sarà il voto di fiducia sul decreto referendum-giustizia.
I puntini, dunque. Il senior deputato 5 Stelle, in Parlamento dal 2013, mette in fila i fatti degli ultimi dieci giorni e non c’è dubbio che la figura di Conte sia in difficoltà. Non si sa se Beppe Grillo in settimana scenderà veramente nella Capitale, non ci sono conferme ufficiali, ma se dovesse essere, «è probabile che lo faccia proprio perché Conte gli ha chiesto una mano: la tenuta dei gruppi è inesistente e in queste condizioni per il Quirinale rischiamo di non toccare palla». In assoluto la cosa che sta più a cuore al leader Conte sui cui circola con insistenza la voce che sotto sotto «anche lui, come Letta, coltivi il pensierino di un ritorno a Palazzo Chigi grazie all’asse con Letta con cui avrebbe un asse di ferro per le prossime politiche».
Ma lasciamo i retroscena e leggiamo i fatti. È più sicuro e il risultato non cambia: gruppi “in piena anarchia”, “forte disappunto” per la fuga in avanti di Conte che vorrebbe “mandare” subito Draghi al Quirinale, cambio di inquilino a palazzo Chigi “senza interrompere la legislatura” – tema primario per i 5 Stelle che due su tre sanno di non tornare in Parlamento – lavorare con il Pd per vincere le politiche e ipotizzare un ticket a palazzo Chigi Letta-Conte. In questa chiave va letta l’ossessione con cui – al pari de Il Fatto Quotidiano – l’ex premier accusa in ogni ospitata tv Matteo Renzi di averlo fatto cadere, di tramare con le destre (lui che ci ha fatto un governo), di aver lavorato per affossare il ddl Zan. Alle “altre ed eventuali” ci pensa il Fatto pubblicando atti giudiziari in cui si rivelano chat e conti bancari totalmente privi di implicazioni penali. Conte sa bene che se nel “campo largo” di Letta c’è Italia viva, non ci possono essere i 5 Stelle. Meno che mai Conte. Quindi cerca di liberare il campo anzitempo. Questo “attivismo” giudicato “in chiave personale” non piace ai parlamentari. Così come non è piaciuta la scelta “in solitaria” dei cinque vice. E il divieto per tutti, tranne che per i cinque, di andare in tv. La sconfitta del candidato di Conte alla guida del gruppo Senato è stata la «prima controprova del malessere e della diffidenza rispetto alla sua leadership». Il fatto che ci sia stato l’accordo per eleggere Mariolina Castellone (contro cui c’è stata «una fastidiosa campagna da parte di Taverna») non è il segno di una «positiva dialettica» come ha detto Conte bensì la presa d’atto di una sconfitta. La partita, per Conte, sarà ancora più dura a dicembre quando toccherà al gruppo Camera eleggere il capogruppo. Non a caso l’uscente Crippa è tornato in pole. «Letta ha cambiato i capigruppo, lo ha fatto persino Berlusconi e il nostro non ci riesce: ecco cosa fa saltare i nervi a Conte» spiega il senior deputato nel Transatlantico riaperto.
Ai vigili parlamentari 5 Stelle ha dato fastidio anche il compleanno del guru dem Goffredo Bettini che, tra i notabili Pd, il governatore Zingaretti e mezzo governo, Orlando e Franceschini ma anche il vice Provenzano, tra una porchetta e un fiasco di vino rosso, ha siglato un nuovo patto Pd-5 Stelle per le prossime politiche e, soprattutto, le basi di un accordo quirinalizio per “mandare” Draghi al Quirinale a febbraio. «Conte non ha capito che è meglio non partecipare a questi happening in odore di accordi e patti segreti» sottolineano fonti parlamentari del Movimento. Cui non è sfuggito che «Bettini lo ha chiamato Luigi anziché Giuseppe…».
Conte non vuole arrivare al voto nel 2023, «teme di arrivarci logorato anche perché è l’unico leader a essere fuori dal governo e dal Parlamento». Posizione svantaggiata. Senza dubbio. Infatti gli tocca spesso inseguire il leader ombra, Luigi Di Maio. Che dà la linea sul Quirinale (Draghi a Chigi, voto nel 2023) e anche sull’Europa. «M5s deve entrare nel Pse, è lo sviluppo naturale» ha detto sabato in un’intervista. Un nuovo smarcamento rispetto alla leadership di Conte. Apprezzato dai parlamentari: «Non possiamo più restare nel Misto, non contiamo nulla».
Sono dita negli occhi a Conte anche le pizze che Di Maio consuma periodicamente con i colleghi di maggioranza (settimana scorsa era con Giorgetti) che dimostrano la centralità del ministro degli Esteri al tavolo delle dinamiche che contano. Ieri in aula è successo un fatto che dice molto sulla fluidità della situazione. Anche rispetto all’asse Letta-Conte e Pd-M5s che molti nel Pd danno per scontato come dimostra il patto della porchetta a casa Bettini ma che scontato non è.
Ieri pomeriggio in aula (decreto giustizia-referendum) il deputato Vittorio Ferraresi, uomo ombra dell’ex ministro Bonafede e a sua volta ex sottosegretario alla Giustizia ha attaccato l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, assolto in Appello dall’accusa di turbativa d’asta. «Ho solo ricordato – ha detto Ferraresi – che la responsabilità politica è diversa da quella penale e che la politica dovrebbe condannare prima le responsabilità politiche, poi eventuali responsabilità penali. Un’assoluzione non ti assolve dal fatto che determinati atti sono contrari all’onore e alla trasparenza». Inaccettabile per il Pd. Una parte almeno. Quella presente in aula ieri. Stefano Ceccanti ha voluto ricordare a Ferraresi «le parole del ministro Di Maio che aveva definito gli attacchi nei giorni successivi all’arresto di Uggetti, “profondamente sbagliati” e condotti con modalità “grottesche e disdicevoli”». Ancora una volta Di Maio meglio di Bonafede e Conte, che sono una cosa sola. Filippo Sensi (Pd) ha affidato il suo pensiero a twitter. «Sto sentendo in aula l’intervento di un Cinque Stelle sulla giustizia che mi fa letteralmente orrore. Non ho altre parole se non due: pensarci bene. Ma bene bene».
Il patto della porchetta a casa Bettini lascia come minimo perplessi. E questa volta ci deve pensare “bene-bene” il segretario dem Enrico Letta che non ha speso mezza parola per difendere Matteo Renzi dalla gogna mediatica di verbali e informazioni personali senza alcuna valenza giudiziaria. Anzi, semmai s’è fatto un grappino e l’ha postato su twitter.
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