Tre anni fa, quando uscivo dall’ufficio, vicino Porta Pia, c’era una signora che chiedeva l’elemosina con un bambino. Avrà avuto meno di un anno. Passavano la giornata seduti sulla soglia di una banca. La mattina davanti all’entrata, con l’avanzare del sole si spostavano sul lato. Il bambino stava tutto il tempo in braccio, avvolto in un foulard, stretto al petto della madre, come si usa ancora nei paesi a Sud del mondo. Una moderna Pietà vivente di Michelangelo.

Ci passavo davanti quando andavo al bar, lì vicino per vedere delle persone e approfittarne per una spremuta o un caffè. Incrociare gli occhi della madre mentre attraversavo la strada era sempre motivo di disagio. Alternavo passi veloci a rapidi cambi di strategia. Rispondere o meno al saluto o anticiparlo. Guardare o meno. Cercare segni di salute del bambino. Il ritorno era più semplice: avrei avuto quella Pietà alle spalle e non davanti. Le prime volte deviavo la traiettoria, mettevo una mano in tasca e svuotavo il contenuto nelle mani della madre. Approfittavo per guardare da vicino il bambino. In tanto tempo, oltre un “prego” non sono mai andato. Non gli ho mai chiesto il nome. Ero convinto che l’operazione dovesse essere chirurgica. Salvaguardare la dignità. O forse solo per timidezza. Sollevato dalla buona azione, mi sentivo meno in colpa la spremuta.

Dopo un po’, madre e figlio non c’erano più. Per giorni mi sono interrogato su che destino avessero avuto. Immaginavo si fossero spostati o che il bambino fosse stato male. Chissà dove vivevano quando non erano nel loro angolo. Immaginavo posti sotto la tangenziale, bettole o qualche centro di accoglienza. Poi, dopo qualche giorno, nello stesso punto compare una nuova Pietà. Il bambino era una bambina, più grande. Stava in piedi vicino alla madre. Per quanto la bambina avesse occhi splendidi, il mio cuore si era indurito. Non provavo lo stesso trasporto provato per la Pietà precedente. Su di loro avevo fantasticato: un viaggio chissà da dove, la Libia, la nascita del bambino, l’attraversamento del Mediterraneo, il buio del mare, la paura. Il tenersi stretti per proteggerlo dal mondo.

Perché non bisogna fare l’elemosina ai bambini

Non che la seconda Pietà non avesse fatto la stessa strada, ma sembrava un’imitazione. Un tentativo di prendere la mia buona fede e farne un piccolo business. Come quando, dopo aver visto qualcosa di emozionante e splendido, lo trovi offerto su una bancarella, in mille copie infinite di plastica e dozzinali. Mi sono sentito sporco quando ho pensato questa cosa. Mi ci sento ancora, ripensandoci. Poi, un giorno, parlandone con alcune persone ho capito che di Pietà come quella Roma era piena. Mi fu spiegato che avevo sbagliato a dare soldi, solo per avere la coscienza a posto. Perché mai bisogna dare l’elemosina ai bambini o a chi usa i bambini. Le mie obiezioni: ma nel dubbio non è meglio aiutare? E se sono persone in difficoltà? “No. Mai!”, mi fu risposto. Questo alimenta un meccanismo più dannoso che positivo. Me l’avevano detto in Madagascar, nelle Filippine. Se un bambino impara che si guadagna di più a chiedere l’elemosina che a fare altro, lo hai condannato per sempre. È dura guardarli negli occhi e dire di no. Ma bisogna fare così. Io ho due figli, mi scatta quella cosa: “potrebbe essere mio figlio!” Faccio fatica a farmi i fatti miei. Però ormai seguo questa regola. È vera la storia del racket delle elemosine, una forma di sfruttamento che fa leva sul buon cuore delle persone.

Hamas e il racket dei bimbi affamati

Quello che sta facendo Hamas con i bambini di Gaza non è diverso dal racket. Fanno leva sulla parte migliore di noi per fare le cose peggiori. Affamano i bambini per farceli vedere. Li riprendono mentre battono pentole vuote per dirci: “Sei complice di questo!”. Ma io non sono complice. Sfruttare i bambini in questo modo è l’ennesima nefandezza di persone che fanno dell’odio la propria ragione d’essere. Nutrire l’odio è più semplice che nutrire l’amore. Però, con l’amore si può alimentare l’odio, facendoci vedere solo un pezzo dell’ingiustizia. Una volta, sui social, ho visto la foto di un cane che sembrava un lupo che azzannava una pecora. Nell’immagine successiva si vedeva tutta la scena: era un cane pastore che la stava salvando. Siamo tutti i cattivi in una storia raccontata male, diceva il post.

Io non sarò mai dalla parte di Hamas, di chi ha sgozzato bambini, li ha rapiti, di chi affama i propri fratelli per fare video e visualizzazioni per il proprio tornaconto politico. Israele ha commesso degli sbagli. Ma io non voglio commettere lo sbaglio di alimentare il racket sulla pelle dei bambini. Era più semplice dire che mi si stringeva il cuore a vedere certe scene, ma sarebbe stato come dare un euro a un bambino che chiede l’elemosina per strada. Non sempre la cosa semplice è la cosa giusta. Ci vuole molto più coraggio a dire “No” che a svuotarsi le tasche di quattro spicci di umanità.