È iniziata la campagna per le elezioni europee. Da Budapest a Lampedusa, da Pontida a Santa Severa, il dato politico della settimana che si è appena conclusa è che le famiglie politiche europee hanno scaldato i motori e iniziato le prime manovre di posizionamento in vista della prossima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo, previsto per i primi di giugno 2024.

Martedì la Presidente della Commissione, la tedesca Ursula Von der Leyen, esponente di spicco del Partito Popolare, ha tenuto il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione nel Parlamento riunito a Strasburgo. Ha provato a dare risposte un po’ a tutti e così facendo ha scontentato più di uno: ha ribadito la necessità del Green Deal, corteggiando i socialisti, ma ha agli altri rimarcato che l’industria europea ed il mondo delle imprese, agricole e non, vadano sostenuti nella transizione ecologica; ha usato parole dure contro la concorrenza sleale cinese, annunciando un’indagine sulle sovvenzioni alla produzione di veicoli elettrici e venendo incontro alle richieste soprattutto francesi, e proprio sul tema della sfida della competitività ha fatto il nome di Mario Draghi come personalità alla quale ha chiesto un aiuto; ha confermato la necessità di aprire le porte ai Paesi che vogliono farne parte, ma non ha subordinato l’allargamento alla modifica dei trattati.

Un discorso molto politico, purtroppo anche molto ovattato, tanto da lasciare a tutti in bocca il sapore evidente di una sua probabile ricandidatura: perché, come ci diceva il belga Verhofstadt in una illuminante intervista sul Riformista, a Bruxelles se vuoi essere candidato voli basso, non spari in alto come accade normalmente nella politica nazionale. Un discorso che lascia prefigurare una maggioranza “Ursula ma non troppo” nella prossima legislatura, ovvero con un baricentro un po’ più al centro.

Giovedì i fari dell’informazione europea si sono spostati a Budapest, dove la nostra Presidente del Consiglio, intervenendo al summit sulla sfida demografica organizzato dal premier ungherese Orban, non ha fatto nulla per nascondere che l’asse col suo amico Viktor è più forte che mai e ha dato a intendere che Fidesz – il partito ungherese prima sospeso e poi definitivamente uscito dal Partito Popolare Europeo – potrebbe con la prossima legislatura entrare dentro l’alleanza conservatrice, quell’Ecr di cui Giorgia è (ancora fino a giugno) presidente.

La stessa premier italiana, nella giornata di domenica, per ragioni tutte di politica italiana – il rischio di essere superata a destra in vista delle elezioni europee è sempre più una certezza – è poi andata con Ursula Von der Leyen a Lampedusa, l’isola nella quale oltre 11.000 migranti sono sbarcati nella settimana precedente, battendo ogni record recente. Con una giravolta che ha dell’incredibile e che pochi le hanno fatto notare, è riuscita a non spiegare come sia possibile conciliare questo suo sacrosanto desiderio di liberare l’Italia dalle maglie strette del trattato di Dublino con la volontà di allearsi con Orban: è infatti lo stesso presidente ungherese, insieme al presidente polacco Andrzej Duda, altro suo alleato dentro Ecr, a ostacolare l’approvazione del nuovo trattato sui migranti che costringerebbe finalmente Ungheria e Polonia a farsi carico del problema e rappresenterebbe per il nostro Paese una svolta. Ma tant’è, la passerella c’è stata e l’asse con Ursula della “estremista a giorni alterni” Giorgia Meloni è stato ribadito.

Nelle stesse ore, a qualche migliaio di chilometri, Matteo Salvini accoglieva a Pontida Marine Le Pen, esponente di un’altra famiglia europea, quella di estrema destra di Identità e Democrazia che tiene dentro il leghista, il Rassemblement National francese e gli ancor meno digeribili personaggi dell’AfD tedesca. Il messaggio a Giorgia Meloni è arrivato bello chiaro: la vera destra di lotta è qui, altro che quella che va a braccetto con Ursula Von der Leyen. Come questa destra di lotta possa conciliarsi con quella di governo romana è tutto da capire: con buona pace dei suoi alleati, specie di quelli che, come Forza Italia, in teoria rappresentanza italiana del partito popolare di Ursula, si apprestano a vivere i prossimi nove mesi e le probabili fughe in avanti del loro alleato Matteo Salvini con una comprensibile apprensione. E con una altrettanto incredibile rassegnazione.

In tutta questa confusione tra le famiglie politiche a destra che aspirano a contare nella prossima legislatura di Bruxelles ma che, al momento, tutti i sondaggi danno sì in leggera crescita, ma non tale da essere determinanti per le alleanze, rimane l’enigma italiano di Renew Europe, con un mondo riformista e liberale che rischia di presentarsi diviso all’appuntamento elettorale del giugno 2024 e mancare così – almeno in parte – l’obiettivo della soglia del 4%. Da Santa Severa dove si è tenuta la festa nazionale di Italia Viva, Matteo Renzi ha ribadito che è in pista per correre sotto le insegne del “Centro” ma che le porte per una alleanza dei riformisti restano aperte. Il giorno prima, dal medesimo palco, a ribadire la necessità di un’unione dei riformisti era stato l’esponente di Più Europa Benedetto Della Vedova, ripreso da Andrea Marcucci, presidente di LibDem e Sandro Gozi, segretario del Partito Democratico Europeo.

Queste disponibilità e questi appelli cadranno nel vuoto? Troppo presto per dirlo. Mancano nove mesi. Ma mancano ancora molti nodi da sciogliere, in Italia e in Europa.

Alessio De Giorg

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