Non sta unicamente nelle rivendicazioni di chi ha perpetrato i massacri del 7 ottobre l’idea che essi abbiano avuto “il merito” di rimettere al centro della scena la questione palestinese. Un’idea sostanzialmente analoga, infatti, per quanto espressa con atteggiamento descrittivo anziché con il trionfalismo di quei macellai, risiede tra i convincimenti di una platea ben più vasta. Si tratta della teoria non ancora pienamente professata, ma già laboriosa nell’intimo di moltissimi, secondo cui il disinteresse della comunità internazionale – combinato con gli appetiti del colonialismo sionista, con la complicità statunitense e con la compiacenza di alcuni quadranti del mondo arabo – avrebbe abbandonato la causa palestinese alla derelizione.

Gli eccidi e la deportazione degli ebrei di quel giorno del 2023 avrebbero rappresentato, per quegli osservatori, un fatto certamente esecrabile, ma innegabilmente connesso a una situazione di risalente sopraffazione dei diritti dei palestinesi di cui ormai nessuno si curava. Insomma, si sarebbe trattato dello sfogo – sia pur con mezzi inammissibili – di una legittima ambizione liberatoria per troppo tempo calpestata. Quando il segretario generale dell’Onu dichiarava che quei massacri “non venivano dal nulla”, non inventava un postulato imposto, ma dava spazio a un sentimento diffuso e profondamente radicato. La strepitosa precarietà dell’empatia a favore di Israele per i fatti del 7 ottobre – una solidarietà che cominciava a venir meno già nel pomeriggio dello stesso giorno – si spiega esattamente in ragione di quel più forte e condizionante convincimento: ingiustamente negletti, i diritti dei palestinesi dovevano riaffermarsi in quel modo inevitabilmente barbarico.

Tutte le manifestazioni “per la Palestina” o “per Gaza” cui abbiamo assistito nei mesi passati, nonché quelle che avranno corso nei prossimi giorni, sono generate dai lombi non sempre inconsapevoli di quell’organismo gravemente malato. Quel che si vede bene appena si guardi con attenzione sotto le vesti apparentemente sane di quella gente impegnata e non sempre insincera, è l’inguaribile incapacità di porre a fondamento delle proprie analisi (chiamiamole così), nonché dei propri intenti protettivi dei palestinesi, l’esigenza che siano neutralizzate le dirigenze sanguinarie e la cultura mortifera che hanno portato alla distruzione di Gaza. La condanna routinaria e parentetica “del 7 ottobre” è il lasciapassare della pretesa che Israele non si difenda in nessuna maniera.

Una pretesa travestita dall’obbligo, per Israele, di non difendersi “in questo modo”. Una pretesa che non solo accredita, ma remunera gli ideatori e gli esecutori dei pogrom di quel sabato di ottobre. Una pretesa che, oltretutto, condanna proprio i diritti dei palestinesi che vorrebbe difendere.