Quando si parla di “location”, il pensiero corre spesso verso una scenografia che fa da cornice agli eventi. Ma ci sono luoghi che non si limitano a ospitare ma incidono, parlano in quanto luoghi altri rispetto all’ordinario e perciò stesso possono avere il potere di trasformare chi vi risiede. Il Conclave  è uno di questi poiché non rappresenta soltanto un “tempo” elettorale nello scorrere della vita ecclesiale ma anche  uno spazio, la cui gravitas è  carica di significati, capace di imprimere una postura interiore.

Molti — me compreso — tendono a pensare al Conclave appunto nei termini di un tempo della scelta ma osservando le immagini in live — silenziose, prive di commento — si comprende che esso è anche un luogo che comunica, educa e plasma. La Cappella Sistina non è in questo senso un’opzione ma uno spazio dedicato in quanto opera che parla nel suo muto colore. Con il Giudizio universale – infatti –  che incombe sopra le teste dei cardinali, essa non si limita ad assistere all’elezione ma in qualche modo vi partecipa, la interroga, la giudica.

Non è un caso se Giovanni Paolo II, nella costituzione Universi Dominici Gregis, volle che fosse proprio quel luogo, carico di memoria e  bellezza, a ospitare il momento decisivo per la Chiesa: “tutto, anche l’ambiente fisico, contribuisce a rendere più consapevoli i Cardinali elettori della presenza di Dio, davanti al quale un giorno dovranno rendere conto delle loro decisioni.”

E viene naturale pensare al film Il tormento e l’estasi, in cui Michelangelo e Giulio II — il genio e il pontefice — si confrontano con forza e fragilità, ma infine collaborano per restituire alla fede un’immagine che le parole non sanno offrire. Anche il Conclave è attraversato da questa tensione: tormento umano e obbedienza spirituale, responsabilità storica ed estasi di un’elezione che non è mai solo politica, ma ecclesiale e mistica insieme. Lo spazio, però, non è mai neutro: la Sistina impone un confine, un limite e una densità simbolica che oggi appare scandalosamente controcorrente, proprio in un tempo in cui tutto è accessibile, condivisibile, documentabile. Paradossalmente a tutto questo intrufolarsi,  il Conclave si sottrae. È chiusura, è soglia, è riservatezza deliberata. Il suo “extra omnes” non è un vezzo liturgico bensì un atto di resistenza autenticamente culturale. Di fronte alla bulimia comunicativa dei nostri giorni, in cui ogni vissuto dev’essere palesato,  tradotto in contenuto, la Chiesa — almeno qui — conserva un altrove inviolabile e, se mi consentite, sotto questo aspetto invidiabile. 

E qui si innesta la provocazione: i social media, con la loro pretesa di penetrare ogni cosa, hanno un po’ disintegrato il senso del limite. Non si accetta più che qualcosa possa accadere senza essere visto, ripreso e postato. Tutto dev’essere convertito in esperienza da consumare. Ma cosa resta quando tutto è stato esposto? Il Conclave, nella sua chiusura ermetica, ci costringe a un esercizio dimenticato: restare fuori, rispettare un discernimento e non intromettersi. Come scrive il filosofo Silvano Petrosino: “Vi sono situazioni in cui la parola deve tacere, non per viltà o per ignoranza, ma per rispetto e per amore. Solo chi è capace di tacere può davvero ascoltare e forse capire.” È in quel tacere che si apre lo spazio dell’ascolto autentico poiché è  nella distanza che spesso si custodisce l’essenziale e l’importante. Il Conclave ci ricorda che si può essere presenti anche senza invadere, che si può partecipare anche stando di lato. E in un’epoca in cui la trasparenza è diventata spesso una forma di violenza, il rispetto del mistero è già una forma di sapienza. 

E forse anche un atto di libertà.

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classe '76, docente al liceo e giornalista, si affida a questo mantra: l’occhio vede, la mente ordina, ma è il discernimento a stabilire il senso"