Il potere, come si sa, ha bisogno di simboli. Che servono a consolidarne la legittimità e a rafforzare la fiducia dei cittadini. E tanto più il potere ha bisogno di simboli, quanto più quella fiducia è a rischio. È probabilmente questo il ragionamento che ha spinto il governo, dopo decine di Dpcm, a ricorrere a un decreto-legge per definire il destino di tutti noi durante il periodo Natalizio. Un atto previsto dalla Costituzione, il decreto-legge, invocato per mesi dai critici dell’uso sistematico di ordinanze e Dpcm per limitare le libertà costituzionali. Tutto bene, dunque. Anzi finalmente! Era ora. Adesso siamo tutti più rassicurati. Misure dure, certo, ma almeno adottate con tutti i crismi.

Peccato che, a guardar bene, più che un omaggio alla Costituzione e una forma di deferenza al Parlamento (che dovrà convertirlo) il decreto-legge del 2 dicembre ha tutta l’aria di essere un trucco, uno specchietto per le allodole, per far digerire agli italiani misure a dir poco irrazionali (come il divieto di spostarsi tra due comuni che distino anche solo 100 metri), sulle quali si è già molto polemizzato. Non c’è nessun ripensamento in questa decisione di ritornare alla Costituzione. Non c’è nessuna svolta. C’è solo un trucco, che gli italiani non meritano. Vediamo alcuni interrogativi e cerchiamo di trarre alcune conclusioni.

Primo. Il cuore del decreto-legge non differisce qualitativamente da quello di tanti Dpcm: si parla di limitazioni alla circolazione differenziate per periodi (21 dicembre – 6 gennaio, Natale, Santo Stefano, Capodanno) ritenuti più o meno “a rischio”. E, infatti, tanto poco queste misure differiscono dal contenuto di un Dpcm, che il Dpcm adottato il giorno dopo dal Presidente Conte “copia e incolla” quanto già stabilito dal decreto-legge del giorno prima. Strano no? Che bisogno c’era?

Secondo. Abbiamo sempre detto che il decreto-legge fosse preferibile al Dpcm perché consente, tra l’altro, il controllo parlamentare. Dev’essere convertito dalle Camere. Anzi, come dice la Costituzione, adottati i decreti-legge, il Governo “deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni” (art. 77). Si riuniscono entro cinque giorni. L’urgenza della riunione non dipende solo dall’emergenza in sé, ma anche dal fatto che più passa il tempo e più gli effetti del decreto-legge possono diventare irreversibili. È il caso nostro. Sarebbe assurdo che un atto del governo, che disciplina le vacanze di Natale, fosse esaminato dal Parlamento (il quale può bocciarlo o comunque modificarlo), dopo che le vacanze sono passate. La discussione sarebbe inutile, l’omaggio al Parlamento una burla. Elementare Watson.

E allora perché il Governo, potendo scegliere tra Camera e Senato per la presentazione della legge di conversione, ha scelto la Camera dei Deputati, che se la deve vedere con la sessione di bilancio e i cui lavori sono pertanto totalmente assorbiti da questa fondamentale procedura (che già rincorre il ritardo)? Perché il governo non ha deciso di far cominciare l’esame della legge di conversione di questo decreto-legge, che riguarda un tema tanto a cuore agli italiani, dalla Camera più libera, cioè il Senato? E perché, malgrado la sessione di bilancio, pur non importando nuove spese, l’esame del decreto legge (A.C. 2812) non è ancora iniziato nemmeno in Commissione?

Perché, addirittura, la discussione della conversione non è nemmeno in calendario? Perché il governo, che ha tutto il potere di farlo, non si è battuto con la sua maggioranza in Conferenza dei capigruppo per una pronta messa all’ordine del giorno del provvedimento in Parlamento?
Se tre indizi fanno una prova, cinque o sei sono pure troppi. Ma noi non vogliamo essere diffidenti e quindi ci limitiamo a fare un’altra domanda. Come sarà possibile per il Parlamento (ripetiamo l’organo chiamato dalla Costituzione a riunirsi entro 5 giorni per valutare, modificare o bocciare le misure governative) discutere di quelle misure prima che il Natale passi? Non è forse attuale e concreto (voluto?) il rischio che questa discussione, se mai avverrà, si terrà a babbo morto anzi a “babbo natale morto”? Cioè quando le misure saranno già state applicate e “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato”?

Il potere ha bisogno di simboli per tener salda la fiducia. Anche se questi simboli sono vuoti di sostanza e si risolvono in un trucco per imbonire coloro la cui fiducia vacilla. A pensar male si fa peccato. Le nostre sono solo supposizioni. Ma se fosse vero, la cosa sarebbe ancora più grave, perché ad emanare il decreto-legge, com’è noto, la Costituzione chiama il Presidente della Repubblica, il quale però non ha nessun potere formale per indurre il governo o la maggioranza parlamentare che lo sostiene a ottenere un tempestivo esame del provvedimento.

Il bisogno di simboli per rinsaldare il potere può giungere fino a mettere in imbarazzo il Capo dello Stato in una vicenda del genere? Per il resto, il decreto-legge contiene previsioni che possono benissimo essere approvate successivamente, perché non servono ai cittadini o al Parlamento, ma servono in realtà al Governo. Allungare la durata di efficacia dei Dpcm a 50 giorni o consentire al Presidente del Consiglio di dettare misure indipendentemente dai famosi 21 parametri (comma 3 art. 1) non richiede, politicamente, una conversione immediata. Quella si che si può fare dopo Natale, tanto per ora vige il decreto-legge. La verità è che l’idea che ci fosse un ripensamento degli strumenti per governare l’emergenza si è rivelata pura illusione.

Il Dpcm esce, anzi, rafforzato. Il potere prima conferito (discutibilmente) al Ministro della Salute ritorna nelle mani del Presidente del Consiglio, i miracolosi 21 parametri che pretendevano (ammesso che qualcuno ci abbia creduto) di rendere “oggettiva” la colorazione delle regioni sono virtualmente mandati in soffitta. Niente di nuovo sotto il sole, anzi, la consapevolezza che il trecartismo sulle spalle degli italiani ha aggiunto una nuova tappa. Il vizio rende omaggio alla virtù. Mi pare che più che una svolta, sia solo un’ammissione di perseveranza. E la perseveranza, come si sa, è diabolica, come del resto, spesso, i simboli vuoti del potere.