In carcere non dovrebbe stare. Non lo dice il Riformista né il suo avvocato né qualche ingenuo ancora convinto del fatto che detenzione debba fare rima con Costituzione. L’ha detto il Tribunale di Catania che – il 22 luglio scorso, quindi non ieri – ha giudicato le condizioni di salute di Mariano Fichera «incompatibili col regime carcerario». Da quel momento è trascorso più di un mese ma il 43enne siciliano non ha ancora avuto la possibilità di lasciare Poggioreale e andare agli arresti domiciliari. Il motivo? La burocrazia gli impedisce di avere il braccialetto elettronico.

A denunciare l’incredibile vicenda è Samuele Ciambriello. In una delle sue ultime visite al penitenziario napoletano, il garante regionale dei detenuti è entrato nel centro clinico del reparto San Paolo. E qui ha incontrato Fichera, nativo di Catania e in carcere per reati di associazione mafiosa. L’uomo ha presentato appello contro la sentenza di condanna, quindi si trova in regime di custodia cautelare. E le sue condizioni di salute sono tutt’altro che perfette. Anzi. È tormentato da varie patologie, a cominciare dalla cardiopatia ipertensiva e da una discopatia lombare che gli rende difficile ogni movimento e che di fatto, ormai da sei mesi, gli impedisce di accedere alle zone del carcere in cui i detenuti possono passeggiare.

Insomma, il quadro clinico di Fichera è talmente compromesso che il buonsenso, prima ancora che la Costituzione e le leggi, imporrebbero di risparmiargli almeno lo strazio della vita dietro le sbarre e di concedergli gli arresti domiciliari. Invece niente. Le procedure per reperire un braccialetto elettronico sono talmente complesse e farraginose che, alla fine, molti detenuti sono spesso costretti a rimanere in carcere anche quando i giudici abbiano per loro disposto gli arresti domiciliari. È normale? Certo che no. «Ho già denunciato più volte questa anomalia tutta italiana – spiega Samuele Ciambriello – Durante la pandemia diversi magistrati, anche campani, si sono avvalsi dell’applicazione di questo strumento per gli arresti e per la detenzione domiciliare. Questo inspiegabile ritardo, che tanto somiglia a un bluff, finisce inevitabilmente per provocare un surplus di sofferenza che rappresenta una doppia pena per ristretti».

Il problema della mancanza dei braccialetti elettronici in Campania, d’altra parte, si era presentato in tutta la sua drammaticità proprio ad aprile 2020. La pandemia era scoppiata da poco più di un mese, l’Italia era in lockdown. Davanti al vergognoso sovraffollamento delle carceri e al rischio che il virus dilagasse dietro le sbarre, il Governo aveva deciso di concedere la detenzione domiciliare alle persone alle quali restasse da scontare dai sei ai 18 mesi di pena. Risultato: un mese dopo l’ok al decreto, ad abbandonare le carceri campane erano stati circa di detenuti su circa 500 aventi diritto. Proprio così: 15 su 500. Il motivo? L’indisponibilità di braccialetti elettronici. A gennaio scorso la questione è stata al centro di uno scontro tra il deputato Roberto Giachetti e l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi.

Oggetto del contendere il ruolo di Fastweb nella fornitura di braccialetti elettronici per i quali è in essere un contratto pluriennale (da 46 milioni di euro) che prevede l’attivazione media di un numero di mille dispositivi al mese e di un 36-43mila in un triennio. Al giro di boa, però, nonostante la solerzia con cui Fastweb dice di aver attivato e disattivato i braccialetti sulla base delle indicazioni fornite dalle forze di polizia, i dispositivi messi in funzione sarebbero stati poco più di 2mila e 600. «È inammissibile che, nonostante sia stata espletata una gara, si abbia ancora difficoltà a reperire i braccialetti – conclude Ciambriello – Così si spiana la strada a distorsioni della giustizia contrarie alla Costituzione e al senso di umanità».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.