C’è chi ha perso la vita a causa di una malattia e chi la vita se l’è tolta in un momento di disperazione incontrollabile. Ma c’è anche chi è stato ucciso, chi è stato stroncato da un’overdose di droga e chi, infine, è stato trovato esanime in circostanze da chiarire. Il “campionario” dei detenuti morti nelle prigioni campane dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 è drammaticamente vario. E ancora più allarmante sono i dati contenuti nel dossier Morire di carcere stilato dal centro studi del sito Ristretti Orizzonti: negli ultimi vent’anni, ben 234 persone hanno trovato la morte dietro le sbarre, a una media di quasi 12 ogni 365 giorni.

È come se, con un improvviso colpo di spugna, fossero stati cancellati gli ultimi cinque Consigli regionali della Campania o gli ultimi sei Consigli comunali di Napoli con tutti i rispettivi componenti. E i numeri potrebbero essere ancora più consistenti se si pensa che, secondo gli autori del report, un detenuto morto su due sfugge alle cronache passando di fatto “inosservato”. La parte più allarmante del dossier riguarda i suicidi all’interno dei penitenziari. Dal 2002 a oggi sono stati almeno 111, con una media superiore a cinque l’anno. Il gesto estremo di Luca, il 25enne tossicodipendente che sabato scorso si è tolto la vita nel carcere napoletano di Poggioreale, alimenta un trend da tempo in preoccupante ascesa. Accusato di maltrattamenti e lesioni, il giovane era transitato per i reparti Firenze e Roma prima di approdare al Salerno. Pochi giorni prima di togliersi la vita era stato a messa e aveva persino parlato con un cappellano. Tutto inutile. Nessuno è riuscito a intercettare la sua disperazione e a evitare che il suo percorso di rieducazione e reinserimento sociale venisse tragicamente interrotto.

Elementi, questi ultimi, che spesso sfuggono alla classe dirigente locale, come sottolineano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti rispettivamente per conto della Regione Campania e del Comune di Napoli: «Il dolore e la morte sono la grande scuola della vita. A quanto pare, però, i politici continuano a ignorarlo e a considerare il carcere come un mero luogo di custodia». Certo è che, nelle prigioni campane e italiane, ci si toglie la vita con una frequenza circa venti volte superiore a quanto avviene tra le persone libere. I drammi si verificano soprattutto negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente sovraffollate e fatiscenti, con poche attività trattamentali e una scarsa presenza del volontariato. A complicare tutto ci ha pensato poi la pandemia che, oltre a mietere numerose vittime tra personale e ospiti dei 15 penitenziari campani, ha reso più complicati i colloqui e diradato i contatti tra detenuti e familiari con conseguenza psicologiche e affettive facilmente immaginabili.

A destare allarme, però, non è solo il numero di suicidi, ma anche quello di morti a causa di malattie pregresse oppure contratte oppure ancora aggravatesi durante la permanenza in una cella. Dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 sono stati 76, il che dimostra quanto sia disastrata l’assistenza sanitaria in cella. Un’ulteriore conferma arriva dai dati relativi al personale medico e paramedico. All’inizio del 2020 nei 15 penitenziari della Campania si contavano 108 medici di reparto e 189 infermieri più sette tecnici della riabilitazione, 17 psicologi e 23 psichiatri per un totale di 344 “camici bianchi” chiamati a gestire una popolazione carceraria di circa 6mila e 500 unità. Inutile sottolineare la sproporzione tra i membri del personale sanitario, in quantità nettamente inferiore a quella prevista dalle piante organiche, e il numero dei detenuti, di gran lunga superiore a quello regolamentare e caratterizzato dalla presenza di numerosi casi clinici complessi.

Il quadro descritto da Ristretti Orizzonti assume tinte ancora più fosche se si pensa che quasi 50 detenuti in Campania sono morti in circostanze da chiarire, per mano di altri o addirittura per abuso di droghe. Insomma, complessivamente si tratta di oltre 200 persone che in carcere, anziché un’occasione di riscatto e di reinserimento sociale, non hanno trovato altro che abbandono, disperazione e morte. E davanti a tutto ciò la politica – salvo rarissime eccezioni – si mostra del tutto indifferente. «Dall’inizio dell’anno siamo già a tre sucidi nelle carceri campane cui si aggiunge quello di un adolescente in una comunità del Casertano – conclude Ciambriello – Parliamo di uomini che in carcere dovevano ricevere una prestazione rieducativa, invece hanno trovato la morte. È ora che tutti si impegnino per spezzare questa catena di dolore che calpesta il senso di umanità prima ancora che la Costituzione e le leggi dello Stato»

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.