«Vorrei dormire per giorni, mesi interi e svegliarmi quando tutto sarà finito. A volte penso che se ci fosse una medicina per dormire un anno pagherei per averla, risparmierei tutta questa inutile sofferenza che non farà di me un uomo migliore, non uscirò da qui meglio di come sono entrato ma solo più cattivo». Mario è italiano, ha 58 anni ed è un detenuto di Rebibbia. Nel suo reparto c’è Luciano che di anni ne ha 64 ed è risultato positivo al Covid: «Sono stato portato in una sezione isolata, chiuso in una cella con altri detenuti contagiati. Mi controllavano temperatura e ossigeno. Ho preso cortisone e altri farmaci perché sono peggiorato, la saturazione era scesa sotto il 90, pensavo di morire». Gino ha 83 anni, è dentro per fatti che risalgono a 34 anni prima: «Non mi ha mai chiamato nessun operatore, nessuno psicologo, nessun educatore, né prima né durante l’emergenza sanitaria. Pensa che nessuno si è mai preoccupato anche solo di chiedermi come stessi considerata la mia età e il rischio concreto di morte in caso di contagio».

Dopo un anno di pandemia, per la prima volta, le drammatiche e personali testimonianze dei detenuti di Rebibbia superano le sbarre e raggiungono il mondo fuori. Sono grida di sofferenza, sono storie di solitudine e isolamento. Arrivano dopo l’appello che i detenuti del carcere romano avevano già rivolto alla nuova Guardasigilli Marta Cartabia qualche settimana fa, successivamente all’irrigidimento delle restrizioni adottate all’interno dell’istituto a seguito di un focolaio scoppiato a fine gennaio tra le mura del penitenziario. La neo ministra, già presidente della Corte costituzionale da sempre sensibile al tema rieducativo della pena, era entrata negli istituti di pena con il Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri, il documentario presentato alla Mostra del cinema di Venezia due anni fa, prima che tutto accadesse.

Oggi alla professoressa Cartabia, Mario chiederebbe di ritornare in carcere, «ma senza dare preavviso» scrive, «se no, le farebbero vedere la parte meno malata». Abdul è un marocchino di 54 anni. È stato in carcere anche in Marocco e in Spagna: «Lì, i detenuti pagano la loro pena con dignità a differenza dell’Italia. Qui, prima dell’epidemia, non potevi abbracciare i tuoi cari o fare una telefonata alla tua famiglia in caso di emergenza. Tutto è vietato per non parlare delle condizioni di detenzione con celle sovraffollate ben oltre i limiti consentiti dai parametri europei«. Silvio è un rumeno di 35 anni: «Al di là del virus, ci sentiamo calpestati dalla mancanza di un vero percorso rieducativo, dall’assenza di operatori, dal sovraffollamento, dal totale abbandono in cui stiamo vivendo».

La pandemia all’interno delle carceri ha dimostrato come il problema endemico del sovraffollamento sia ancora un capitolo aperto anche se la popolazione carceraria è notevolmente diminuita. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, sono 7533 i detenuti in meno rispetto al pre Pandemia cioè un calo del 12,3 per cento. Ma non basta. Il nuovo complesso di Rebibbia si compone di diversi reparti. Ognuno è come fosse un carcere a sé con circa 350 posti. I reparti sono denominati G8, G9, G11 e G12. C’è l’infermeria centrale e c’è il G6, quello per l’accoglienza dei detenuti con acuzie psichiatriche. Tutte le sezioni hanno le zone di passeggio per l’ora d’aria, una biblioteca, un’infermeria, gli uffici direttivi e di sorveglianza e una piccola chiesa. Poi ci sono le aree comuni a tutti i settori come il teatro, la grande chiesa, l’area verde per colloqui con i familiari, le sale per gli avvocati e quelle per i visitatori. L’istituto penitenziario ha un direttore e un comandante, ma ogni reparto ha un suo responsabile che è anche vice direttore di tutto l’istituto penitenziario. Ogni blocco è indipendente, opera come fosse un singolo istituto di pena sotto la sovrintendenza della direzione centrale.

Luca ha 44 anni, è italiano. Scrive da Rebibbia: «Oggi siamo oltre 1500 detenuti ma i posti disponibili penso siano intorno ai 1200. Le celle più comuni hanno 6 posti letto e misurano circa 20 metri quadri ma la metratura calpestabile, togliendo letti e mobilio, è di circa la metà: 10 metri quadri per 6 persone». Il tasso medio di affollamento delle carceri italiane è arrivato al 115 per cento. Un terreno fertile per la diffusione del virus che in carcere ha un’incidenza più alta rispetto a fuori. Al 29 marzo, erano 683 i detenuti positivi, gli agenti contagiati 797, 56 nello staff dell’amministrazione. Dall’inizio della pandemia, secondo i dati di Antigone 18 detenuti sono morti per Covid. 11 i decessi nella polizia penitenziaria, 3 il mese scorso solo nel carcere di Carinola. Ci sono anche i 13 morti dopo le rivolte negli istituti di pena dello scorso anno, un numero tragico che non ha precedenti nella storia repubblicana. Fu il primo e il più terribile effetto collaterale della pandemia, il blocco dei colloqui, le ore d’aria cancellate, lo stop alle attività trattamentali.

Luca pensa a sua figlia di 7 anni: «Sì, ho paura del Covid. Qui la situazione non sembra sotto controllo, c’è tanta improvvisazione senza alcuna strategia. Ma la paura più grande è quella di essere dimenticati dalle persone che ti vogliono bene. I legami si recidono se non vengono curati, soprattutto quando ci sono i minori bisognerebbe adoperarsi nel loro interesse primario. I colloqui consentiti, un’ora al mese con vetro separatore e citofono, aggravano la nostra sofferenza perché non sono tollerabili da bambini in tenera età. Da oltre un anno non incontro i miei cari, mio padre, la mia convivente e soprattutto mia figlia». Anche Paolo ha scelto di non vedere i suoi figli di 10 e 15 anni per evitargli la tortura del colloquio: «Vedo mia moglie un’ora al mese dietro il plexiglas. Gli incontri si svolgono in sale con divisori e telefoni a filo ma non si sente nulla perché l’ambiente è piccolo, mettono 4 o 5 detenuti uno di fianco all’altro, il citofono è di pessima qualità e occorre urlare per comunicare». Per la stessa ragione, Silvio non vede la sua bambina da un anno. Anche Mario che ha tre figli adulti ha preferito non vederli: «So che i più piccoli potrebbero entrare ma nessuno dei detenuti che conosco ha voluto fargli vivere questa esperienza».

Il Coronavirus ha «rotto il tabù del digitale in carcere» scrive Antigone sul report. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha autorizzato limitatamente alla fase dell’emergenza, l’uso delle videochiamate con i propri familiari. Smartphone, tablet e pc che prima erano strumenti demonizzati dentro le carceri, oggi vengono incentivati dallo stesso Dap. Una telefonata a settimana della durata di venti minuti. L’uso delle tecnologie potrebbe restare nell’organico del Sistema ad emergenza passata. Un passo importante per i diritti dei reclusi ma non possono bastare pochi minuti di conversazione audio video per tenere in piedi i legami affettivi scrivono i detenuti di Rebibbia. Ci sono tante difficoltà racconta Mario: «La linea è troppo spesso disturbata dalle chiamate che entrano mentre parli e che interrompono il collegamento. Anche l’impossibilità di scegliere l’orario della videochiamata è un disagio perché i familiari lavorano o i figli vanno a scuola». Abdul ha un padre anziano molto malato, non riesce a parlarci perché vive in un’altra città rispetto a sua moglie e non si può chiamare più di un’utenza. Silvio è stato contagiato ma non ha avuto problemi di salute: «Sono stato completamente isolato. Non ho potuto fare nulla per circa 20 giorni.  Niente ora d’aria, niente camminate, niente socialità. Niente di niente. Sono a Rebibbia da due anni e non mi ha mai chiamato nessuno, solo l’infermeria quando sono stato contagiato».

Abdul ha paura di infettarsi: «Vedo che i casi all’interno dell’istituto aumentano sempre di più e non mi sembra che le precauzioni adottate portino risultati soddisfacenti. L’unico intervento che viene predisposto è quello di chiudere tutto, in cella 24 su 24 senza contatti con nessuno. Anche per giorni e giorni neanche fossimo animali. Non ricordo di essere mai stato chiamato in 4 anni che sono a Rebibbia». Manca il personale. Secondo i dati raccolti dall’associazione per i diritti dei detenuti, gli agenti di polizia penitenziaria sono il 12,5 per cento in meno di quello che dovrebbero essere seppur in aumento rispetto al 2019. Gli educatori la cui funzione è centrale nella lotta alla recidiva e al recupero del detenuto, dovrebbero essere 896 ma se ne contano 733 su tutto il territorio nazionale.

«Per parecchio tempo tutte le attività sono state sospese» racconta Paolo, «dal lavoro allo studio, dalle attività come il teatro che in carcere è molto importante fino alla possibilità di fare attività fisica. Tutto ciò ha creato grandi problemi soprattutto sull’equilibrio psichico. Sono aumentati gli episodi di autolesionismo e di litigi tra i detenuti anche per futili motivi». Lo confermano i numeri. Nell’anno del Covid, su 100 detenuti, si è registrata una media di 24 casi di autolesionismo e il tasso aumenta per le carceri più affollate. Nel 2020 sono stati 61 i suicidi, un record negli ultimi vent’anni. Marco è italiano, ha 35 anni: «Ho visto tantissime persone compiere gesti autolesionisti, persone che prima non avevano mai manifestato segni di disagio ma che non hanno retto questa situazione soprattutto l’attesa dei colloqui con i familiari». I detenuti guardano con fiducia la professoressa Marta Cartabia che dopo la nomina a ministro della Giustizia ha inserito le carceri tra le priorità del programma vaccinale. Il 2 marzo la nuova Guardasigilli ha incontrato i vertici dell’Amministrazione penitenziaria dichiarando già iniziate le vaccinazioni negli istituti. Al 29 marzo, i detenuti vaccinati erano 4540. Si deve fare in fretta ma non c’è una sanità penitenziaria. Bisogna rimettersi alle scelte e alle disponibilità delle singole regioni con una tempistica di intervento non omogenea.

Luciano ha sconfitto il virus: «Adesso, cerco di non sforzarmi troppo, sono ancora debole, mi concedo solo delle brevi camminate. Voglio solo lasciarmi alle spalle questa terribile esperienza che mi ha sconvolto la vita». Gino si distrae con qualche lavoretto artigianale ma per lo più passa il tempo a letto: «Mi sento depresso e non ho più l’età né la forza mentale per reagire». Abdul trascorre le giornate guardando la tv o leggendo un libro, una cosa complicata perché la biblioteca della sezione è chiusa: «Se penso a come passo i miei giorni mi viene da piangere, mi rendo conto che è tutto tempo buttato». Paolo è riuscito a trovare qualche libro, legge in attesa di riprendere gli studi. Mario si occupava della biblioteca del reparto. Aiutava i compagni a scegliere un libro, prima. Soffre di diabete. È imprigionato nelle sabbie mobili della burocrazia. Avrebbe diritto alla detenzione domiciliare perché non ha commesso un reato ostativo e finisce di scontare la pena tra un anno: «Questo sistema così come è, porta i detenuti alla esasperazione e non ha alcuna finalità rieducativa. Chi sopravvive esce peggio di come è entrato. Qualcuno non riesce a sopportare la sofferenza e decide di farla finita. Quanti uomini tra queste mura se ne sono voluti andare per fuggire da questo inferno».

L’esperienza della pandemia all’interno delle carceri ha insegnato una lezione che i detenuti conoscevano già. Il Covid ha solo aggravato le carenze di un sistema che tarda a modernizzarsi, che fatica a garantire una pena umana e riabilitativa come previsto dalla Costituzione. Non a caso Antigone ha battezzato il suo ultimo report Oltre il virus perché il contagio è solo l’ultimo dei problemi con cui il mondo dietro le sbarre deve fare i conti. Le storie dei detenuti di Rebibbia si somigliano tutte. Navigano al buio in attesa che la stella polare della Costituzione torni a illuminare la Galassia penitenziaria perché la parola “rieducazione” diventi un principio dal significato umano prima ancora che costituzionale.