L’emergenza coronavirus è diventata l’ordinarietà, dentro e fuori dal carcere. Ed il sistema penitenziario italiano affronta questo agosto anomalo facendo i conti con la vita in carcere ai tempi del coronavirus. L’apice della crisi è passato, ma non senza lasciare ferite: 287 contagi in tutto ad inizio luglio ed 8 morti, 4 tra i detenuti, 2 tra il personale di polizia e 2 tra quello medico. Poteva andare molto peggio ma le misure di prevenzione, le limitazioni dei contatti con l’esterno ed il calo della popolazione detenuta hanno evitato che questo accadesse: a fine luglio c’erano nelle nostre carceri 53.619 persone, 7.611 in meno rispetto alla fine di febbraio. Le misure per il contrasto al sovraffollamento hanno dunque funzionato, ma abbiamo ancora più detenuti che posti regolamentari (50.588 in tutto, mentre i posti effettivamente disponibili sono almeno 4.000 in meno), mentre le misure adottate erano a tempo, e sono venute meno il 30 giugno. Da un momento all’altro dunque i numeri potrebbero tornare a crescere.

Il tasso di affollamento ufficiale si ferma intanto al 106,1%, gli istituti più affollati sono Larino (178,9%), Taranto (177,8%) e soprattutto Latina (197,4%), mentre le regioni più affollate sono la Puglia (127,2%), il Friuli-Venezia Giulia (129,3%) ed il Molise (144,4%). Il contrasto al virus per ora ha almeno in parte funzionato, ma non tutto è andato per il meglio durante questa difficile prova. Da una parte va segnalato il numero dei suicidi, 34 dall’inizio del 2020, un numero molto alto rispetto agli anni passati, equivalente a più di 10 volte il tasso di suicidi della popolazione libera, certamente legato anche all’ansia per sé e per i propri cari, ansia che, come in molti, medici e detenuti, ci hanno testimoniato, in questi mesi ha raggiunto livelli eccezionali. Ma sono cresciute moltissimo in questo periodo anche le segnalazioni ricevute da Antigone per presunti maltrattamenti e violenze. Da Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere e Pavia ci sono arrivate notizie di rappresaglie da parte di elementi del personale di polizia penitenziaria ai danni di persone che avrebbero organizzato o partecipato alle rivolte di Marzo. Durante le rivolte sono stati commessi dei reati, ai quali bisogna rispondere con le indagini e con i processi. Non con violenza arbitraria che, se venisse accertata in giudizio, configurerebbe veri e propri casi di tortura. Le indagini sono attualmente in corso e andranno seguite con attenzione.

Intanto, come dicevamo, il carcere si adatta a questa nuova normalità. Sono ripresi i colloqui con i familiari quasi ovunque ma in molti istituti, per prevenire i contagi, si autorizza un solo familiare. In altri due o a volte anche tre, secondo una logica non troppo chiara.
Continua anche l’uso delle videochiamate, che sono state utilissime per limitare in questi mesi l’isolamento e la preoccupazione dei detenuti. Queste però vengono sempre più autorizzate in alternativa ai colloqui, non in aggiunta a questi, costringendo i detenuti a scegliere ad esempio se passare un’ora di colloquio con il proprio partner o un’ora di videochiamata con quei membri della propria famiglia i quali, perchè troppo giovani o troppo anziani, non possono affrontare il viaggio a volte lunghissimo per andare al colloquio. Ci auguriamo davvero che al più presto si decida, per favorire i rapporti con i familiari come sempre si dice di voler fare, che questo limite venga rimosso. I mesi passati hanno dimostrato come è possibile farlo.

Così come è possibile allargare l’uso delle videochiamate oltre i colloqui con i familiari. L’esperienza della didattica a distanza in carcere non è andata benissimo, soprattutto per limiti tecnici. Le risorse (PC, tablet, internet, etc.) erano limitate e sono state usate soprattutto per favorire i contatti con i familiari. Ma da qualche parte sono state usate anche per altre attività, didattiche o formative, e si è trattato di esperienze certamente positive da preservare e moltiplicare, non certo da archiviare.