Ancora una volta questi corridoi lunghi e squadrati, lo sferragliare delle chiavi e il rumore delle porte di ferro che si aprono al nostro passaggio e si chiudono alle nostre spalle. Dopo tanti anni mi fa ancora impressione e continua a produrre in me un vago senso di estraneazione. Me lo fa ancora adesso che attraverso questi spazi, questa volta in qualità di garante regionale dei detenuti. Di nuovo qui, mi dico, e la mente va alla prima volta che ho varcato questa soglia, quando circa quarant’anni fa come volontario mi sono inoltrato per gli stessi corridoi, ho sentito gli stessi rumori, avvertendo le stesse sensazioni.

Ricordo che la prima volta, l’impatto con il pianeta carcere fu devastante e non vedevo l’ora di uscire di nuovo da lì, da quel luogo rimosso e squadrato dove non c’era alcun segno tangibile di una qualche umanità, eccezion fatta per gli agenti che mi accompagnavano e che, comprendendo il mio stato d’animo, cercavano di rincuorarmi, lanciando al mio indirizzo timidi sorrisi. Allora non sapevo ancora che dietro tutto quel frastuono metallico e quel vociare confuso, in quelle celle, c’erano anche dei volti, delle storie, delle persone. Un portone blindato che divide l’umano dal non umano. E, ancora, dove un uomo tiene chiuso un altro uomo.

Oggi, invece, lo so e so pure che rendere più umano questo spazio rimosso che si chiama carcere non è semplicemente un compito da anime belle e gentili ma un impegno necessario che, se assolto, rende anche l’esterno, il cosiddetto “contesto civile”, migliore. Quando parliamo di carcere, è semplice e scontato dire che dietro quelle sbarre ci sono persone che hanno fatto cose sbagliate, a volte terribili, ma anche poveri cristi che hanno commesso piccoli reati, il più delle volte dettati da uno stato di necessità ma anche da una profonda deprivazione culturale che impedisce di vedere un’altra possibile esistenza. E ci sono anche innocenti.

Meno carcere significa più relazione tra esseri umani e quasi sempre meno delitti. A volte mi sono sentito come un naufrago che da un’isola deserta assegna al mare il proprio messaggio in una bottiglia; altre volte, invece, sono sorretto in questa semplice invocazione da associazioni, operatori, qualche magistrato! Ma quanta fatica ci vuole per uscire dal coro e lavorare affinché questa semplice verità non venga immediatamente seppellita sull’onda dell’ultimo fatto di cronaca o per la cinica speculazione di qualche politico pronto a strumentalizzare ogni cosa che accade, con allarmismi che rischiano di riportare la cultura giuridica del nostro paese indietro di cinquant’anni. Certo, mi sorregge in questa battaglia, in questa sorte di “fede laica”, l’articolo 27 della Costituzione che ribadisce la funzione educativa della pena e questo fa sì che il mio sforzo quotidiano non venga percepito come qualcosa di utopico e irrealizzabile. Ma poi mi domando: mi sorregge solo il dettato costituzionale?

E la risposta arriva naturale, quasi scontata. No, sicuramente no. Mi sorreggono quei visi, quelle storie, anche di tanti innocenti che, nel corso degli anni, tanto mi hanno dato e a cui spero di aver dato qualcosa anch’io. Mi sorregge lo sforzo dei volontari e della stragrande maggioranza degli operatori penitenziari. Perché è proprio questo il punto: mutare atteggiamento verso chi “sbaglia” non è solo giusto o un atto caritatevole, ma è anche utile alla società. Già, utile! Mi vengono alla mente i cardini costituenti sui quali è stata fondata la filosofia giuridica che regola la pena detentiva e cioè: l’utilitarismo e il contrattualismo.

Ho scritto questo libro sul carcere, come una scelta vocazionale, un testamento che consente a coloro che non conoscono la realtà del carcere di vivere un racconto tridimensionale. È andare contro corrente, contro un populismo legale e politico, perché lo Stato di diritto vale sia per Caino che per Abele.