Il dottor Ruggero Giuliani è una di quelle persone che ti sembra di conoscere da sempre, anzi, che avresti voluto aver conosciuto da sempre, tanto che immediatamente ti perdi nella sua storia. E ti ritrovi a dargli del tu come se non fosse solo la seconda volta che lo vedi e come se non si fosse in una situazione oppressa dalle mura di una prigione. Oggi il dottor Giuliani è il direttore sanitario del carcere di San Vittore, reduce dalla battaglia con il Covid-19 e anche da quella con la rivolta dei detenuti del 9 marzo. Ma fino a poco tempo fa, con la collega (che casualmente è anche sua moglie) Teresa Sebastiani era operatore sanitario di Medici senza frontiere in Africa, per oltre dieci anni, in luoghi di guerra e in ultimo in Mozambico. E’ specializzato in infettivologia. Così è cascato da un anno dentro i gironi infernali di San Vittore proprio alla vigilia dell’arrivo di un virus che lui ha annusato abbastanza in fretta, pur se a tutti sconosciuto.

Il racconto di questi mesi a San Vittore è l’immagine plastica di una sorta di bolla che si è (è stata) salvata pur all’interno della complicata situazione sanitaria lombarda. Nell’istituto, al numero due della piazzetta Filangieri cantata da tante canzoni della mala milanese come “Ma mi”, oggi ci sono circa 850 detenuti. Il che significa il venti per cento in meno dei 1000-1100 dell’era ante-Covid. Chiedo subito di chi sia il merito: dei giudici di sorveglianza o del decreto governativo? «No, il motivo principale è stata la riduzione delle attività investigative e della presenza dei presìdi di polizia nelle zone rosse». Quindi, poiché zona rossa (o arancione) è stata tutta la Regione Lombardia, questo vuol dire non solo che forse in Italia ci sono troppi reati di strada, cioè la cosiddetta piccola criminalità, ma anche che si arresta con troppa facilità, come se il carcere fosse l’unica soluzione dei problemi di devianza o emarginazione.

«Il carcere ormai –il dottor Giuliani ne è convinto- è l’ultimo luogo che si prende cura dei residuali. Li chiudi dentro, butti la chiave e li tieni lì. Forse in questo modo affronti qualche problema di sicurezza, ma dimentichi che punire equivale a far soffrire». A San Vittore il 70% è composto da detenuti stranieri che non hanno neanche un domicilio, quindi è difficile applicare loro le misure alternative al carcere. Così è anche per molti anziani malati e soli. Sono questi i problemi. Qui non esistono reparti di alta sicurezza e neanche 41 bis. Qui c’è la “normalità” di poveri ed emarginati per cui la detenzione pare l’unica soluzione di vita. O di sopravvivenza.

Quindi, come è andata con il Coronavirus? «La prima regola, in presenza di un virus così contagioso, è ridurre il sovraffollamento. Ma in un carcere come questo, con piccole celle da 3 persone in nove metri quadri o grandi da 11 in 18 metri quadri, non puoi fare nessun distanziamento. L’unica soluzione è tenere sempre le celle aperte, cosa che si fa con molta ipocrisia dopo la sentenza Torreggiani (quando la Cedu ha condannato l’Italia per gli spazi ridotti per detenuto, ndr), così si contano anche i metri dei corridoi. Non potendo intervenire su questo aspetto, noi come prima cosa abbiamo chiuso porte e portoni, cioè sospeso i colloqui e bloccato l’ingresso degli esterni non indispensabili. Fin dal mese di febbraio avevamo prestato particolare attenzione alle polmoniti e ai detenuti cinesi o che comunque fossero arrivati dalla Cina». Ma ci sono cinesi? Sorriso: «Certo, e adesso cuciono mascherine e camici che sono stati già omologati dal Politecnico».

San Vittore dispone di un ottimo Centro clinico interno, con venti medici e cinquanta infermieri. Con qualche operatore sociosanitario, un’ottantina di persone, che nei mesi scorsi si sono occupate quasi a tempo pieno della pandemia. «Con il Direttore Giacinto Siciliano abbiamo costituito una task force fin dal 23 febbraio, quando fu scoperto a Codogno il famoso paziente uno, e abbiamo intensificato tutte le misure di prevenzione. Poi il 9 marzo la rivolta ha rischiato di far saltare tutto. C’erano già state tensioni a Pavia e Voghera, penso ci sia stato una sorta di tam-tam. Ma quando penso ai volti dei “miei ragazzi” sul tetto mi vien da sorridere all’idea che qualcuno abbia pensato a una strategia per far insorgere i carcerati. Credo invece che loro fossero delusi perché speravano in una soluzione Iran, cioè carceri svuotate completamente. Comunque abbiamo superato quel momento, anche se abbiamo avuto problemi con i nostri agenti che erano andati a dare una mano fuori, cioè nelle altre carceri e che si sono contagiati».

Non sono uscite all’esterno molte notizie su quel che succedeva “dentro”, dopo i giorni della rivolta. «I primi casi si sono verificati all’inizio di marzo, ma solo per un paio di detenuti che sono transitati all’ospedale di Niguarda, dove hanno necessitato anche di piantonamento. Così si sono contagiati circa sessanta agenti, di cui il settanta per cento erano sintomatici. Ma in tutto la situazione grave si è limitata a un agente e un detenuto morti, purtroppo». Questo è il momento in cui Ruggero Giuliani, che neanche per un attimo ha mostrato la vanità dei tanti virologi che in questi mesi hanno affollato le nostre tv, ha un moto d’orgoglio. Sembra quasi uno che crede davvero nelle virtù salvifiche del carcere. Perché a partire dal 7 aprile il Centro clinico di San Vittore è diventato a tutti gli effetti il “Centro Covid” di tutta la Lombardia.

«Mentre tutti ci dicevano di scarcerare, noi pensavamo a curare. Abbiamo fatto 1.500 tamponi. Ogni volta che trovavamo un positivo, immediatamente, entro le ventiquattrore, abbiamo fatto i tracciamenti di tutti i contatti interni. E siamo intervenuti in modo rapido ed efficace a dare l’accesso alle cure. Fino a un certo momento eravamo anche riusciti a tenere separati i tre settori paralleli: detenuti, agenti e personale sanitario. Ma il 31 marzo era avvenuto il primo contagio interno, cioè il passaggio del virus da detenuto ad agente e viceversa».

E’ stato in quel momento che la task force ha fatto un vero appello ai detenuti. «Abbiamo bisogno di voi, abbiamo detto, e li abbiamo coinvolti sollecitando comportamenti attivi, con un decalogo di regole di prevenzione, con l’uso di mascherine e di igienizzazione di ogni oggetto presente nelle celle». Insomma, è andata. «Abbiamo avuto l’ultimo positivo interno il 24 aprile. Complessivamente i positivi erano stati 22 detenuti su 550 e 60 agenti su 550. Poi ci sono arrivate 70 persone positive dalle carceri di tutta la Lombardia.

Li abbiamo curati tutti, ora ne sono rimasti solo tre». Tre è un numero di qualche giorno fa, relativo al momento dell’intervista. Inutile chiedere, infine, al dottor Ruggero Giuliani se sia favorevole all’amnistia o all’indulto. Lui crede molto nella riabilitazione sociale, nella formazione, nel lavoro. «Ci sono tanti reati di povertà…», scuote la testa, sconsolato.  Se questo medico di frontiera vi ha dato l’impressione di essere un vecchio saggio giramondo, sappiate che ha solo 48 anni. Molto ben vissuti.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.