In un non vicino passato, quando imprese estere effettuavano operazioni dirette all’acquisizione di imprese italiane, quasi sempre ci si doleva perché non esisteva un potere in capo alla mano pubblica per intervenire e, dunque, si auspicava che ciò fosse, invece, reso possibile. Ora, nel caso dell’offerta amichevole non vincolante Kkr per l’intera proprietà di Tim o comunque per una partecipazione non inferiore al 51 per cento, il potere d’intervento esiste ed è la normativa sul “golden power” del 2012 che legittima il Governo a vietare acquisizioni societarie che confliggano con interessi strategici fondamentali. E ciò sia per la rete nazionale e per il progetto della realizzazione della banda ultra-larga, sia, e soprattutto, per la rete Sparkle che gestisce dati sensibilissimi, Tim integra interessi strategici fondamentali che corrispondono agli interessi generali del Paese.

Dunque, la normativa del 2012 sarebbe attivabile. Per ora il Governo ha scelto, invece, la posizione di neutralità, pur non sottacendo l’integrità degli interessi strategici rappresentati da Tim e l’importanza del capitale umano e dei livelli di occupazione. Di qui la dichiarazione di attenzione a quanto sta avvenendo. Ma quanto tempo potrà ancora durare questo atteggiamento sia pure di vigile attesa? Il riferimento al mercato è importante, ma per quest’ultimo è del pari importante sapere come agirà un attore fondamentale che è il Governo il quale, a seconda di come riterrà di attivare il “ golden power”, può determinare una configurazione o un’altra di Tim o sancire il divieto di acquisizione anche non totalitaria. Certamente, l’esercizio del potere in questione ha come scopo la protezione degli interessi anzidetti e richiede una solida motivazione. Esso non può dare copertura, però, a gestioni inefficienti o, comunque, ritenute non adeguate, né può assicurare con la prospettiva della sua tutela il cosiddetto “azzardo morale”.

Nel caso Tim, si combinano due ordini di fattori che verosimilmente sono alla base dell’iniziativa di Kkr: le carenze di strategia e i problemi di governance segnalati ripetutamente dalla francese Vivendi, il primo azionista, nonché la caduta dei ricavi della società, da un lato, e la non soddisfazione per i ritorni sperati dell’accordo con Dazn, dall’altro. Può avere concorso, in ipotesi, pure la non sufficiente chiarezza da parte del Governo sull’intervento pubblico in economia, sulle opportunità, i limiti e il suo raccordo con la concorrenza e il libero mercato. È dai primi giorni dell’insediamento del Governo che il premier Draghi, anche in qualche conferenza-stampa, è stato sollecitato a dire quale sia la sua visione del “pubblico” in economia, ma egli ha evitato una risposta diretta affermando di non avere una teoria in materia e rinviando alle singole decisioni. Una indeterminatezza che, però, non giova né ai sostenitori di una presenza pubblica che non sia quella, come si è scritto, del “ guardiano notturno”, né ai sostenitori a spada tratta dell’esclusivismo del mercato. La costituzione del Supercomitato di Ministri che dovrebbe valutare questo caso, ma si spera abbia una competenza “ erga omnes”, può essere un modo anche per prendere tempo oppure può mirare alla introduzione di analitici criteri che siano oggettivi e, dunque, predeterminati per sciogliere in singoli punti i principi della disciplina del “golden power”.

Ma ciò non può avvenire alle calende greche. Naturalmente, quanto si è detto sui ritardi e sulla governance non legittimerebbe di per sé un totale passaggio di proprietà, stanti la strategicità e gli interessi nazionali rappresentati da Tim. Ma se, poi, si accentua il ruolo di questa particolare impresa di telecomunicazioni, come accennato, nell’ambito del Piano di ripresa e resilienza, anche con riferimento alla banda ultralarga e al “ cloud”, allora la società Tim diventa, nel disegno che si mette a punto, un pilastro della transizione digitale e, “a fortiori”, deve essere “ protetta” dallo Stato; ma, naturalmente, ciò esige un mutamento di governance, di strategie, di operatività. In questa direzione si starebbe muovendo la francese Vivendi, azionista principale di Tim, che starebbe tentando un raccordo con il potere pubblico per contrastare l’iniziativa di Kkr. Quest’ultima non è considerata un “fondo-avvoltoio”. Resta, però, pur sempre, la singolarità o l’unicità, nel panorama internazionale, di un’impresa come Tim che sarebbe governata da un fondo il quale, pur non essendo “prendi e fuggi”, non investe, come del resto i fondi della specie, con una lunga prospettiva di stabilità. In ogni caso, sull’impiego del “ golden power” va fatta chiarezza, avendo comunque presente la differenza tra Vivendi e il fondo anzidetto. Né sarebbe opportuna la soluzione dello spezzatino che dovrebbe vedere separate le reti da Tim, nuocendo così all’integrità della società e ponendosi forse problemi ancora maggiori.

Da quando si ebbe la dissennata idea di privatizzare la Sip, che operava bene, con il famoso “nocciolino” a vantaggio degli Agnelli, la Telecom (poi Tim) è passata da una traversia all’altra. Si eviti di aggiungere quest’ultima, che rappresenterebbe il colpo finale. Ciò che fecero i privatizzatori, seguaci dei partecipanti alle famose riunioni sulle dismissioni pubbliche a bordo del Britannia, finirebbe con il farlo pure l’attuale Governo, con l’aggiunta di avere a disposizione norme che all’epoca del panfilo della Regina non vigevano. Ma noi confidiamo che ciò non potrà accadere.