Un piccolo monumento all’ignoranza
Il linguaggio violento dei maranza contagia la politica (e la degrada)
Le parole della diplomazia e della sana competizione sono finite nel cassetto. I partiti dovrebbero dare l’esempio sulle regole della democrazia e della civiltà

È una fatica immane andare all’incontrario rispetto a Trump, alla sua prosa urticante e bullesca, alla sua incurante contraddittorietà, alla sua mimica e alle sue posture che paiono quasi la versione anziana di imbronciamenti fanciulleschi. È una fatica di Sisifo, come salire il monte con addosso il globo, perché quella prosa sta dilagando nel mondo, sguazzando nella semplificazione algoritmica che ormai ha preso il nostro cervello con il ritmo binario imposto da Nostro Signore dello smartphone con i suoi replicanti digitali. Non è un caso, infatti, che accanto al tycoon-presidente prenda posto e immenso potere l’altro tycoon, quel Musk patron dell’IA che sembra uscito da un libro di Orwell.
Così, nel giro di poco, vanno a farsi benedire i linguaggi prodotti dal Dopoguerra novecentesco e da ottant’anni di pace nel mondo occidentale, che hanno avuto come effetto non solo quello procedurale di imporre una moderazione dei toni, ma anche l’altro – sostanziale – di aderire al catalogo dei diritti umanitari sancito dalle Dichiarazioni (Onu e, a seguire, Ue) che istituiva anche un modo rispettoso di interagire tra Stati e popoli, funzionante persino al tempo della Guerra Fredda. Oggi ci invade, invece, una prosa del tutto scissa da concetti e agganciata all’emotività di chi ascolta, quella stessa dei social e degli spot pubblicitari. Il linguaggio del maranza, del tamarro delle bande giovanili suburbane ha preso il posto delle parole della diplomazia, della vision, della competizione politica poggiata sulle regole della convivenza.
Dicevamo del modello e dei seguaci sparsi per il pianeta: quante volte abbiamo ascoltato commenti compiaciuti sul linguaggio “diretto che piace alla gente” e che “anche se ci scappa qualche parola sbagliata, va bene perché così parla il popolo”? Ma la politica non è quella pedagogia democratica che mentre si compie insegna al popolo sovrano le regole di base della democrazia proprio con l’esempio? E che pedagogia può essere esercitata in un ambiente politico malsano che sembra avere come parolieri piuttosto che leader dei trapper, in conflitto fisico con l’antagonista non riconosciuto come avversario ma vituperato come nemico da sterminare?
La nuova semantica della politica internazionale s’intride di questi pericolosi prolassi di parole che reggono gesti non meno violenti: un linguaggio che nutre sì le ondivaghe posture oratorie di Trump, ma che s’impone come un esperanto universale parlato anche da Putin, da Hamas, da Netanyahu, dalle destre estreme incoraggiate qui e là nel mondo da gente come Steve Bannon che, tanto per non farsi fraintendere, brandisce il suo saluto nazista ai camerati.
Questo stile “maranziano” è anche tra noi, nel lessico quotidiano dell’ineluttabile conflitto politico italiano. È vero: forse le parole non sono più pietre, come scriveva Carlo Levi, che “costruiscono salde fondamenta, edificano ponti, regalano cultura”. Proprio per questo, però, vanno maneggiate con maggiore cura: possono fare molto male se non hanno più la missione del bene. Possono creare l’ambiente del conflitto perenne che distrugge quel senso di appartenenza a una civiltà politica condivisa, costruita sulla dignità della persona. E poi il maranza cos’è se non un piccolo monumento all’ignoranza che reagisce nell’unico modo che sa di fronte al mondo complesso che non capisce?
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