L’anno politico si è aperto con il significativo incontro tra Giorgia Meloni e Trump e la disfatta organizzativa del campo largo in Sardegna. Testimonianze di incolmabili abissi di scala: la premier si muove da protagonista sullo scacchiere globale, il centrosinistra inciampa su elementari rendiconti elettorali locali. Basterebbero queste due istantanee per archiviare il 2025 prima che inizi. In 26 mesi di governo Giorgia Meloni ha mostrato un elevato tasso di professionismo politico. Ha superato le iniziali diffidenze internazionali e – complice un mood globale favorevole – oggi la sua si presenta come la più solida leadership d’Europa. Gestisce con mano lieve le periodiche, infantili turbolenze della sua maggioranza. E ha cementato il già forte legame con la sua constituency, vero fattore vincente in un’epoca nella quale il solo affacciarsi al potere genera disaffezioni, sospetti e ostilità nell’elettorato.

Senza avversari

Tutti e solo meriti suoi? Domanda senza senso, perché la politica funziona come una partita di calcio o qualunque altra challenge: si vince perché tu sei bravo ma anche perché gli altri sono scarsi, o quantomeno più scarsi di te. E non c’è dubbio che gli avversari della Meloni, al momento, non sembrano attrezzati per competere. È un fatto che il centrosinistra tutto è tranne che una squadra. Ognuno dei giocatori (dalla Schlein – a proposito, dov’è finita? – fino ai vari zerovirgola, passando per il CamaleConte) lavora per sé, per consolidare il controllo del proprio spicchio di campo, manutenendo apparati famelici e militanti creduloni, esaltando identità presunte più che vere. Né l’annunciato avvento di una formazione centrista di impronta “cattolica” (qualunque cosa voglia dire nel XXI secolo) potrà colmare il deficit strutturale dell’alleanza: la mancanza di un progetto unitario incarnato in una leadership indiscussa.

Il limite

Ovunque, nelle democrazie, progetti e leadership marciano insieme: così la Meloni, nel tempo, ha costruito profilo, identità e credibilità. Il punto è che oggi, da palazzo Chigi, la brava e apprezzata professionista si sta limitando a gestire un paese che da 25 anni si impoverisce, e non per le disuguaglianze che aumentano, ma perché ha istituzioni formative arcaiche, per lo strapotere delle corporazioni sull’interesse collettivo, per la distanza crescente tra la nostra qualità della vita e quella dei paesi più sviluppati, che chiunque può misurare varcando i confini nazionali.

Mentre la sinistra, invece di intestarsi battaglie che possano invertire la rotta valorizzando il merito, il mercato, la concorrenza – unici possibili fattori di cambiamento – si balocca agitando fantasmi, chiedendo più spesa pubblica e redistribuzione, ostacolando ogni riforma di sistema. Con l’aggravante – serissima – di non avere neppure una leadership all’altezza. Ecco perché, se non intervengono novità dirompenti, nel 2025 la navigazione della Meloni procederà più che tranquilla, senza avversari degni di nota. In un mondo in tempesta, la politica italiana sembra arenata in una eterna Gran Bonaccia delle Antille.