L’avvicinarsi del centesimo anniversario della scissione di Livorno sta favorendo l’uscita di vari libri che cercano di trarre dei bilanci equilibrati di quello che è un pezzo di storia d’Italia. Devo dire che più leggo questi volumi più sono portato a valorizzare la chiave di lettura, oggi poco nota, che risale a Jacques Maritain, cui si deve la puntuale definizione del comunismo come “ultima eresia cristiana”. Eresia perché separava la verità cristiana dell’istanza della redenzione del mondo dall’altra verità non superabile, anche e soprattutto dalla politica, della finitezza umana, che si esprime nell’idea del peccato originale.

Nel 1944 in poche ma penetranti pagine di Cristianesimo e democrazia, Maritain ne parla come di un’eresia «fondata sulla negazione coerente e assoluta della trascendenza divina, un’ascesi e una mistica del materialismo rivoluzionario integrale», ma formula anche una profezia, segnalando la possibilità che «una rinascita del pensiero e dell’azione democratica riconcili con la democrazia, col rispetto delle cose dell’anima, coll’amore della libertà e col senso della dignità della persona… molti comunisti per sentimento e molti di coloro che un senso di ribellione contro le ingiustizie sociali rende inclini al comunismo» perché, e questo è il punto chiave, «i comunisti non sono il comunismo». Ossia, come avrebbe poi tradotto Giovanni XXIII, la complessità di giudizio su un movimento storico non può essere ridotto all’analisi dell’ideologia da cui esso scaturisce.

Perché la profezia di Maritain si realizzasse, come in effetti è realizzata dopo il 1989 in Italia, unico caso in cui una parte maggioritaria, ancora quantitativamente consistente, del movimento storico che aveva conservato i nomi e simboli del comunismo ha accettato, con varie contraddizioni e problemi, di rimettersi in gioco, era però necessario superare il mito della riformabilità interna dell’Urss. Un mito che, paradossalmente, l’esperienza gorbacioviana, destinata a seppellire quel sistema, aveva confermato nel Pci tra 1985 e 1989. Come era possibile immaginare la riformabilità interna? A partire dal mito dell’innocenza originaria dell’affermazione del comunismo in Urss.

Anche qui ci troviamo di fronte a una secolarizzazione di quanto avviene nelle Chiese cristiane: di fronte alle contraddizioni anche gravi del tempo presente si riparte dalla vitalità del messaggio originario per produrre degli aggiornamenti. Il punto è che le chiese cristiane partono da un avvenimento che è impossibile vedere come negativo o contraddittorio (una persona che è crocifissa), ma qui l’origine, l’azione decisiva di Lenin, si può descrivere come positiva? Rispondono puntualmente Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro ampio testo Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia, edito da Marsilio: «È evidente che l’azione di Lenin, con lo scioglimento dell’assemblea costituente e lo svuotamento del potere dei Soviet, era sfociata in una dittatura comunista» (p. 111).

Idem Andrea Romano nel suo Il partito della nazione. Cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano, Paesi Edizioni: «Lo schema che reggeva questa e tutte le successive declinazioni del mito della riformabilità del sistema sovietico si fondava sull’immagine di un “leninismo buono” che sarebbe stato successivamente distorto dallo “stalinismo cattivo”. Per questo l’entusiasmo del Pci per Gorbaciov superò di gran lunga quello (molto più tiepido) mostrato da altri comunismi occidentali, per non parlare dell’aperta diffidenza venuta dai regimi autoritari dell’Europa Orientale (che nella perestrojka videro, e giustamente, l’annuncio della propria imminente estinzione”» (pp. 38-39). Se il mito originario non era recuperabile era quindi vana “la ricerca di questa introvabile terza via” tra comunismo realizzato e socialdemocrazia da parte di Berlinguer e dei suoi più diretti successori (Pendinelli-Sorgi, p. 208).

A ciò si aggiunge anche la puntualizzazione della seconda edizione appena uscita del volume di Claudio Petruccioli Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci ad oggi edito da La Nave di Teseo a proposito dell’espressione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre dopo l’autogolpe di Jaruzelski. Proprio nel momento in cui veniva espresso un giudizio severissimo e irreversibile veniva però salvata la bontà del mito originario, «il fatto che il 1917 fu considerato la rottura di un sistema e il passaggio finalmente possibile ad un altro sistema. È questo l’errore di cui liberarsi» (pp. 334-339).

Se però l’ideologia era sbagliata perché allora quel movimento storico è stato consistente in Italia fino alla sua evoluzione successiva, mentre negli altri paesi occidentali arrivati al fatidico 1989 i partiti comunisti erano già marginali da anni? Romano ci parla della volontà di rottura con il tradizionale massimalismo socialista (p. 82) e più in generale, sia pur dovuta a un organicismo un po’ retro, ad un’impostazione che cercava di tenere presente l’intera società italiana quale essa era nella realtà effettiva: «la visione di una società che già negli anni Trenta si immaginava tenersi insieme senza fratture o divisioni per essere traghettata come un organismo univo verso il socialismo» (p. 49), una sorta di partito della nazione ante litteram.

Un’applicazione particolare di questa impostazione si era avuta col voto alla Costituente sull’articolo 7 e più in generale con la realistica presa d’atto del radicamento particolare della Chiesa cattolica in Italia, come sottolineano Pendinelli e Sorgi (pp. 153-233). È del resto quanto ha tradizionalmente insegnato Pietro Scoppola, spiegando come quel voto sia stato uno dei passaggi chiave per favorire l’egemonia del Pci nella sinistra a spese del Psi a partire dalle elezioni del 1948. Paradossalmente questi pregi, il rifiuto del massimalismo, la volontà di cambiare la società italiana tenendo però effettivamente conto delle sue caratteristiche effettive, che sono e restano tali anche oggi, erano però in origine legati appunto al difetto di impostazione di un’eresia religiosa secolarizzata. Era così certo il conseguimento dell’obiettivo finale, della felicità sulla terra, che non era il caso di abbandonarsi ad estremismi controproducenti.

Va segnalato inoltre un secondo paradosso di sistema: l’estrema flessibilità, la capacità di radicamento nell’intera società italiana e non solo nella classe operaia, la scelta togliattiana di un partito di popolo e non di una setta di rivoluzionari, ha fatto del Pci un partito capace di durare per decenni in ruoli importanti, ma il fatto che mantenesse un legame sia pure residuo con l’Urss ha contribuito a paralizzare la possibilità dell’alternanza, che invece ci sarebbe stata se a dominare a sinistra fosse stato un partito socialdemocratico. Basti rileggere uno dei passaggi chiave dell’ultimo discorso di Aldo Moro ai suoi gruppi parlamentari, cioè del leader che più di tutti cercò di andare oltre la frattura della Guerra Fredda ben prima del fatidico 1989: «Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, nel senso che vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi. Sappiamo che vi è diffidenza in Europa in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose».

Quali contraddizioni ha portato con sé questo traghettamento di un’eredità così contraddittoria agli appuntamenti successivi? Come spiega Petruccioli «una parte di noi ha voluto la svolta per ‘uscire’ dal Pci, mentre un’altra l’ha subita per ‘restarci’… Per i primi veniva meno la costrizione, poteva cominciare la libertà; per i secondi scompariva non un modello, perché neppure loro apprezzavano il ‘socialismo reale’, ma la ‘forza’. Due modi di intendere e di vivere la politica» (pp. 295-304-305).

Del resto, in modi del tutto diversi, anche nell’altra più consistente cultura politica approdata nel Pd, quella del cattolicesimo democratico, la fine dell’unità politico-elettorale che era legata in modo indissolubile all’egemonia comunista sulla sinistra, è stata vissuta da alcuni come la liberazione da una costrizione e da altri come una necessità cui rassegnarsi. In questo senso, per capire meglio le vicende politiche, esse non possono mai essere lette a compartimenti stagni: come scrive Petruccioli «non solo nella politica, ma nella vita, nessuno è, e basta; tutti, anche diveniamo»(p. 224).