Se la sinistra intende ricostruire una cultura politica incisiva nel mondo contemporaneo deve rispondere alla questione fondamentale messa al centro della riflessione di Fausto Bertinotti. Il suo ultimo articolo evoca la rilevanza per certi versi paradigmatica di una figura così politicamente creatrice come quella di Mitterrand. E in effetti, con la spinta progettuale verso una coalizione della gauche assai critica verso il capitalismo, la sua leadership può essere assunta, più di altre parimenti rilevanti, come il simbolo del compimento di un’epoca del socialismo novecentesco.

Conquistando l’Eliseo con le immagini di radicale critica e addirittura di “rottura” anticapitalista in breve tempo egli dovette ricalibrare le politiche di governo perché le riforme ispirate ai tradizionali valori della sinistra non rispondevano alle esigenze della crescita e provocavano reazioni visibilmente negative negli investitori internazionali. Il richiamo alla realtà, ovvero alle nuove esigenze sistemiche del capitale, non fu diverso dal brusco strattonamento che, sempre in nome della integrazione mondiale dei mercati divenuta ormai ineludibile, indusse al fallimento l’ultimo governo laburista alla fine degli anni Settanta. Mentre in Italia, con la metafora della “terza via”, la sinistra comunista persisteva in una lettura errata delle ideologie politiche riformiste, e ancora negli anni Ottanta ribadiva una valutazione alquanto provinciale delle esperienze di governo dei socialisti in Europa, il bilancio storico del secolo socialdemocratico indicava la straordinaria rottura qualitativa (diritti di cittadinanza, beni pubblici e sociali, spazi di partecipazione deliberativa, impianto cosiddetto neo-corporativo per le politiche) che quelle innovazioni avevano imposto al regime capitalistico.

Sul finire degli anni Quaranta il sociologo T. H. Marshall (Cittadinanza e classe sociale, Utet), descrivendo il meccanismo economico inglese come si presentava a seguito dei governi della sinistra, parlava della sussistenza di “un sistema francamente socialista” nel quale “il mercato funziona ancora, ma entro certi limiti”. Entro lo spazio politico della liberaldemocrazia (suffragio universale, partiti di massa, organizzazioni sindacali) il movimento operaio aveva preso efficacemente le misure al capitale introducendo ovunque nelle legislazioni nazionali dei significativi elementi di socialismo. Se Mitterrand rinunciò alla parola d’ordine della “rottura anticapitalista” non lo fece per un qualche cedimento ideale. Anche il partito socialista di Craxi, ancora nelle tesi programmatiche per il congresso di Torino, propugnava il tema della transizione al socialismo come un obiettivo maturo da inseguire addirittura nel tempo contingente. Il problema di fondo è che negli anni Ottanta in tutta Europa, per le spinte obiettive di un nuovo ciclo storico-politico, è indotto alla ritirata il grande modello socialdemocratico (dissoluzione della coalizione lavorista, crisi fiscale dello Stato, movimenti post-materialisti, oltrepassamento dello Stato-nazione).

A costringere il movimento socialista sulla difensiva non fu tanto la “rivoluzione silenziosa” del post-modernismo (che con le sensibilità ambientali e le istanze civiche monotematiche fu semmai un effetto dei processi più ampi), quanto la mutata configurazione del capitalismo che infittiva le reti mondiali della finanza, della circolazione e condannava all’inefficienza le politiche di riforma tradizionali in un universo della produzione il cui volto assumeva sempre più un profilo globale. Sul piano teorico Niklas Luhmann traduceva con incisività le nuove tendenze funzionali del capitale che, reagendo alla stagione delle “neutralizzazioni della proprietà” (prestazioni pubbliche, controllo di organizzazioni e servizi, dissociazione di avere e potere), rivendicava la superiorità del criterio proprietario di organizzazione (lo schematismo binario avere-non avere) rispetto al criterio del controllo politico. Luhmann rifiutava la ri-politicizzazione della società imposta dalla democrazia costituzionale e rivendicava la necessità di assicurare di nuovo “la crescente liberazione dell’economia da vincoli funzionali di tipo non economico”.

Contro la guida pubblica del privato imposta dalle democrazie di massa nel grande pensiero conservatore veniva riformulato il disegno di una società senza centro e vertice e quindi alleggerita dal peso eteronomo della decisione politica. “La concezione diffusa secondo la quale il diritto starebbe perdendo in questo secolo una impronta individualistica per assumere più accentuatamente delle forme sociali, non solo è insufficiente, ma è addirittura falsa” (Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Il Mulino, p. 101). Alla democrazia che aveva invocato una de-differenziazione tra politica ed economia Luhmann contrapponeva le esigenze di autoregolazione del sottosistema economico capace di sfornare elevate prestazioni in virtù dell’astrazione del denaro e del contratto. Le spinte alla deregolazione, alla rivincita del contratto, come segno dell’autonomia della illimitata circolazione dei beni, hanno scandito il trentennio liberista che ha rimodulato su scala mondiale l’equilibrio tra politica, diritto ed economia. La formula neoliberismo viene spesso utilizzata come una parola magica ed onnicomprensiva che, per stigmatizzare un’epoca, finisce per attenuare le differenze che, pur nella vigenza di una comune esperienza di predominio delle forze dell’economia e della finanza, affiorano nelle variegate capacità di risposta della politica. Nelle democrazie europee con una più marcata persistenza di partiti e di organizzazioni il ciclo neoliberista non ha affatto scalfito, annichilendole, le tradizionali simbologie pubblico-sociali del secolo socialdemocratico.

La difesa del lavoro e la strategia dei diritti possono essere perseguite e, in certa misura, anche agli occhi delle élite dell’economia rappresentano un interesse generale, perché il vuoto di rappresentanza sociale viene altrimenti occupato da populismo e sovranismo che imperversano come momenti di irrazionalità ed anomia. Ma, per essere politicamente incisive, queste istanze conflittuali (sul fisco, sui salari, sui diritti) esigono una riformulazione delle piattaforme su una scala europea. In paesi più forti (Germania, ma anche aree scandinave) l’egoismo delle classi lavoratrici si ricollega alla capacità degli Stati di assicurare una tutela efficace ai diritti di cittadinanza. Del resto, una versione di corporativismo operaio si può rintracciare anche nei paesi più deboli dove si assiste al proliferare delle richieste di un welfare aziendale che in una età di risorse scarse tutela almeno le isole del lavoro relativamente più forti.

Nelle democrazie di oggi il panorama non sembra più essere quello che induceva Robert Dahl (Politica e virtù, Laterza, p. 59) a palesare forme di pessimismo radicale. “All’orizzonte”, egli scriveva, “non si profila nessuna alternativa possibile a un’economia prevalentemente di mercato” perché qualsiasi prospettiva socialista “non riesce a incontrare interesse o visibilità”. La grande e perdurante crisi del 2007 ha rimescolato le carte imponendo come domande prioritarie un ritorno di pubblico, di politica come condizioni qualitative della stessa crescita economica. Il successo recente dei socialisti in Portogallo, Germania etc. conferma la recuperata vitalità delle idee politiche del riformismo di sinistra entro economie di mercato complesse e differenziate. Le letture critiche del moderno, che Bertinotti invita a non abbandonare, possono essere mantenute politicamente vive solo se le rappresentazioni del conflitto si proiettano in un laboratorio politico europeo, come su queste pagine ama ripetere spesso Biagio De Giovanni.