La domanda cruciale nel dibattito in corso sul Riformista, intorno al tema della sinistra, è quella posta da Fausto Bertinotti sulle gravi difficoltà che incontra la democrazia rappresentativa a ”rappresentare”, con parti di popolo indifferente, astenuto o addirittura ostile, con rimbombo nel rifiuto grillino della “casta”. Muovo da un tema che mi pare tanto decisivo quanto ignorato nella discussione: la causa principale del fenomeno indicato è nella fuoriuscita della democrazia dai confini dello Stato-nazione, che è anche la ragione del dissolvimento o quasi dei partiti, ridotti a ceto politico parlante in larga parte di Europa, con la parziale eccezione della Germania, non a caso Stato dominante.
I fenomeni sono complicati e si intrecciano in modo non lineare: la fuoriuscita della democrazia dai confini dello Stato (nel quale si sono svolte, nel bene e nel male, le sue vicende) è cosa niente affatto arbitraria, ma legata all’insufficienza della dimensione democratico-nazionale nel mondo globalizzato, e allo sforzo difficile e incerto di trasferirla a un livello sovranazionale ed europeo, cercando di rappresentarne continuità e innovazioni che non ne svalutino il significato. Il tema drammatico dei prossimi anni è questo, e lo definisco così per la ragione semplice e vera che il passaggio della democrazia dalla dimensione nazionale a quella sovranazionale, senza negare affatto la prima ma ripensandola e rafforzandola, è cosa di estrema difficoltà e carica di contrasti, non foss’altro per i differenti stadi in cui si trovano le democrazie degli Stati membri; ma non solo per questo, soprattutto, per la difficoltà politico-istituzionale insita nella nuova costruzione. È la ragione per la quale provo a intervenire nella discussione, che, interessante per tanti aspetti, mi pare particolarmente carente rispetto al tema indicato: si citano Europa ed europeismo in incisi che spesso possono anche esser saltati senza danno.
Ed invece proprio quegli “incisi” devono diventare decisivi. Il primo punto di una lotta politica della sinistra – per restare nel lessico del dibattito – è la lotta ai sovranismi-populismi, dopo averne inteso le ragioni che ne spiegano l’affermazione, e che non sono poche anche se rozze, e oggi (forse) in crisi. Il primo, essenziale motivo per essere a favore di Draghi è questo, non perché lui si possa intestare quella lotta nella sua complessità, ma perché possa rappresentare, sia nel linguaggio sia nelle idee sia nel governo, il fondo della posizione indicata, e mostrarla costantemente nella sua necessità ai suoi sostenitori parlamentari, in qualunque ruolo si troverà. Altro che esponente della finanza internazionale senza cuore, secondo versione D’Alema-Bettini, ma anche Meloni e un po’ Salvini, e presente, non nascosta, nel Pd. Ecco il primo significato del passaggio dalle chiacchiere di Conte alla cultura di Draghi, allievo di Federico Caffè, europeista critico, non si dimentichi, già dagli anni Ottanta, di una Europa solo monetaria e mercatista, e non sociale, e non politica.
Il tema è questo, e in parte è pencolante sul vuoto, data la crisi profonda che attraversa l’idea stessa di Occidente, fino all’autocritica interna che ne sta disgregando la fisionomia e negando la storia. Su questa via, l’ipotesi che appena qui disegno non indica affatto una riduzione del ruolo degli Stati, ma prova a leggerlo in una chiave che non ripeta gli schemi del passato, secondo la nostalgia di un tempo che non può più tornare e che, per alcuni, basterebbe richiamare quando non risponde all’appello: un tempo in cui “sinistra” indicava il movimento operaio che cercava le sue alleanze. Le classi dirigenti degli Stati nazionali dovrebbero lavorare intensamente nella direzione indicata, qui il vero spartiacque tra destra e sinistra, ma aggiungo subito: proprio questa diagnosi rende insufficiente la classificazione di queste parole secondo il loro prevalente significato storico. Non essendoci più il movimento operaio, non è in questione una sua alleanza con altri, la questione è cambiata. La sinistra non ha più confini di classe, deve assumere i caratteri di un grande movimento europeista per riforme e iniziative politiche ben determinate, con progetti di alleanze larghe, che non richiamino più i vecchi nomi, nemmeno quello del socialismo, e non ne cito altri molto più compromessi. Per fare ciò, lo Stato deve aumentare i propri compiti, non ridurli.
La democrazia europea si forma insieme, tra gli Stati e lo spazio che si va disegnando oltre di essi. Come? Molto va costruito, tanto ancora manca: lavorando intensamente alla riforma del patto europeo di stabilità, i primi segnali sono nell’accordo italo-francese; riproponendo duramente, nella conferenza in corso sul futuro dell’Europa, il tema di una fiscalità europea, anche in polemica con la Germania; ridando fiato e sostegno alla borghesia produttiva capace di creare occupazione, in occasione del fondamentale Recovery fund; alla sua capacità di espandere le alleanze centrali nella fase dello sviluppo, sostenendo una cultura politica che raccolga ciò che è fecondo in diverse forze politiche, oltre le sigle, rimettendo in discussione le forme esistenti.
Bisogna creare una alleanza di forze diverse, contribuendo a darle forma, con grandi sorprese possibili, che è la cosa decisiva, oltre le sigle attuali, insisto. Provando a costruire un mondo nel quale non entri nemmeno l’estremismo grillista e contiano, che ha distrutto la giustizia e denegato il Parlamento, accogliendo i reprobi di quel Movimento sinceramente pentiti. La lotta vuole coraggio e prevede anche momenti di isolamento. Possibilità di sconfitta, perciò è lotta. Ma con un progetto per l’Italia, con la riforma istituzionale necessaria, con una lotta alla precarietà che non può essere solo invocata, in nome di una eguaglianza che non avrà i caratteri delle rivendicazioni passate, le quali riguardavano grandi masse di lavoro organizzato e sindacalizzato. Un mondo finito. Bisogna inventarne un altro.
La sinistra si deve mettere a difesa della democrazia, assediata dall’esterno e dall’interno, anche da quella Cina amata da alcuni, che continua a mostrare il lato oscuro di un comunismo irriformabile. Non un ceto politico parlante può fare questo, ma un partito nuovo, capace di mettere insieme forze diverse, non affezionato a nostalgici riti e nomi che si sono consumati, consapevole della drammaticità della congiuntura mondiale, pandemia compresa. È possibile, è realistico tutto questo? Deve essere possibile – più d’una tra le forze in campo dovrà prendere l’iniziativa – perché, senza questa ripresa politica degli Stati e dei partiti, l’Europa cadrà nel fosso della marginalità, e l’America di oggi si limiterebbe a guardare…. Perciò bene Draghi, a patto che capisca fino in fondo il suo ruolo. Bene tutto ciò che si muove nell’area europeista, che però, si è detto, non si può difendere com’è. Il Pd ha vizi di origine molto gravosi, salvo alcune parentesi, caro Enrico Morando: è stato fuori dalla tradizione liberale, che rifiuta perché in generale la confonde con “liberismo”, dimentico dell’antica lezione di Benedetto Croce in polemica con Luigi Einaudi.
E, allora, da dove si riparte? Come nelle grandi crisi di trasformazione, dalla consapevolezza della crisi, dalla tragicità delle condizioni del mondo, in mille settori connessi tra loro. Le classi dirigenti si formano nel fuoco della crisi, non con i gridi nelle piazze, né con le compra-vendite nel Parlamento. È il fuoco della crisi che mette in moto energie e pensieri. Si utilizzi bene, con grandi innovazioni da sinistra e dal centro, la scadenza del 2023. Se ciò non avverrà, beh allora… continueremo a dibattere, sempre più esausti, sull’identità della sinistra.
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