Massimo D’Alema non riesce a convincersi di essere stato, per lungo tempo, una delle cause contingenti della crisi della sinistra italiana, e uso la parola “contingente”, perché quella che tocca la grande storia è la fine infausta del 1917, e il 1989 come data fatale. Mai la sinistra italiana ha voluto fare i conti fino in fondo con quella grandiosa vicenda, si considerava già vaccinata dalla sua storia di “autonomia”, che fu anche effettiva. Ma le cose non sono così semplici. Il Pci era nato nel 1921 facendo una scelta di campo storico, con la fine del quale è finito anche lui. Gli eredi non hanno mai voluto ammetterlo, dicono: noi eravamo già fuori dalla storia sovietica, ma la cosa non è fondata, né poteva esserlo, perché “natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise”, come scriveva già Vico.

La mancanza di una resa dei conti vera e profonda con quella data ha fatto sì che, della tradizione costruita dal Pci, restasse forte la parte più vecchia e nostalgica, anche quando giunse l’epoca della fondazione del Pd, soprattutto al tempo della segreteria Bersani: il “noi siamo diversi e migliori”, i super-onesti della politica, il giustizialismo, sempre una idea di palingenesi sociale, il conservatorismo costituzionale con il mito della più bella costituzione del mondo, la conseguente mortale paralisi istituzionale, e così via. Eredità raccolta, nel 2018 – solo apparente paradosso- dai 5 stelle, votati in larga misura da un elettorato ex-Pci, come ha dimostrato in modo clamoroso, per dirne una, il voto dei quartieri popolari di una città come Napoli. Che c’entra D’Alema? C’entra, per essere stato il leader principale di un conservatorismo sostenuto con aria di sufficienza, che ha connotato la sua azione e soprattutto il suo pensiero politico, già prima della fondazione del Pd.

Bisognava certo cambiare, con le varie “Cose” e il Pds, ma il lume era sempre il glorioso passato, tanto che anche Achille Occhetto gli appariva, in quegli anni, un eversore della causa. Veltroni, primo segretario del Pd, cercò altre strade, sempre assediato da una sinistra conservatrice, dalla costante ostilità di D’Alema che ha condizionato la storia di quel partito, contribuendo al suo carattere ambiguo, accompagnato dalla retorica dell’incontro dei due riformismi -cattolico e comunista- e rimasto sempre a mezza strada tra vecchie nostalgie e una cultura politica senza identità. Ha governato tanto, facendo anche qualcosa di buono, ma non lasciando tracce significative.

Perché torno su questo tema? La ragione è che, qualche giorno fa, in occasione del brindisi di fine anno nella riunione di Articolo 1, D’Alema ha sentenziato che la malattia mortale per il Pd è stata la direzione di Matteo Renzi, e che la liberazione del partito da quella “malattia” consentiva finalmente di riprendere il filo di una grande storia, in modo che anche lui potesse rientrare. La cosa è stata accolta male da Letta– e non solo da lui- e si capisce bene l’impossibilità di condividere una tesi così estrema anzitutto dall’attuale segretario del partito. La verità a me pare diversa. Matteo Renzi ha rappresentato il tentativo più efficace e consapevole di ridare alla sinistra italiana una fisionomia di forza riformatrice, soprattutto di istituzioni invecchiate, liberandola anche da un moralismo giustizialista che, dai tempi di Mani Pulite fino all’assedio a Berlusconi, non si riusciva a eliminare.

Renzi cercò una rifondazione considerando esaurita la storia passata, una storia importante, in certi passaggi lontani anche grande, ma conclusa nei suoi elementi fondativi. La sua direzione non fu certo esente da errori, ma chi non sbaglia sporcandosi le mani? E anche dopo la fondazione di Italia viva -nata pure perché combattuto, Renzi, all’ultimo sangue, da forze interne al Pd- egli è stato decisivo per la democrazia italiana in varie occasioni, fino a determinare la sostituzione di Giuseppe Conte con il Prof. Mario Draghi. Ma, si sa, D’Alema faceva parte della schiera: o Conte o morte, lo ricordiamo bene. E oggi ancora ce lo ricorda lui, criticando Draghi e la sua presidenza. Per me, basterebbero le nostalgie contiane per giudicare un uomo politico, e questo, s’intende, non vale solo per D’Alema.

Ma torniamo a Renzi. Sarebbe sufficiente ricordare il Referendum del 2016, fallito anche per l’opposizione più o meno nascosta del Pd, per giudicare la sua capacità di innovazione, il tentativo di combattere per un nuovo assetto istituzionale, la cosa più importante che manca all’Italia. E mica male, anche se non riuscito, fu il suo tentativo per la costruzione di un nuovo centro politico. La caduta di Renzi ha coinciso con il trionfo di Grillo, oggi alleato del “nuovo” Pd. È difficile aggiungere qualcosa per capire il disastro avvenuto in Italia a muovere dal 2018 da cui solo ora ci stiamo sollevando, ancora con il contributo di Renzi.