Il ritratto di un uomo di qualità, intelligenza e cinismo notevoli
Chi è Massimo D’Alema, l’unico che potrebbe dare un’anima al Pd
Il Grande Saladino delle figurine Panini della memoria torna in campo: l’introvabile, il baffuto, sprezzante e scostante, ultimo comunista ma forse anche il primo vero capitalista della grande ditta delle Botteghe Oscure sta assediando il Fort Alamo-Nazzareno per espugnarlo e riprendere il comando delle sue legioni. Poteva peggior incubo capitare a Enrico Letta, che si è trovato costretto addirittura a difendere il suo mortale nemico Matteo Renzi – quello di “stai sereno” – rispondendo a D’Alema che tutto va bene, madama la marchesa, tout va bien, tout va très bien? Come Annibale quando si stufò degli ozi pugliesi, Massimo D’Alema ha deciso di riapparire alle porte di Roma con elefanti, salmerie, bagagli, ideologie.
L’ex segretario per eccellenza non ha proprio detto che espugnerà il fortilizio, ma in quello stile che adora, in quello stile inconfondibile e un po’ comunista, che segue la sua sintassi fredda e orgogliosa, ha soltanto accennato alla eventualità, se non ha la probabilità, che “Articolo uno” chiuda i battenti e li vada a riaprire direttamente nel partito democratico. Sarebbe questa la strategia del genere Proteina Spike, quella specie di fior di fragola che abita sulla coccia del virus Covid e che funge da trapano per bucare le nostre cellule umane e ficcarcisi dentro con armi e bagagli.
È stato un colpo da maestro, quello di D’Alema, lo dimostrano i contraccolpi confusi e furibondi che ha prodotto. Tutti hanno avuto paura e tutti hanno gridato di non avere paura. Il discorso politico di D’Alema è stato semplice: Il vecchio partito comunista, oggi reperibile su Google come partito democratico – dal momento che contiene un buon quarto di democrazia cristiana – ora che è guarito dal suo vero Covid, ovvero dal renzismo, non più malato ma ancora convalescente, merita di uscire dalla sala rianimazione e tornare in prima linea. Prima linea di che, non è chiaro affatto. Resta sospesa nel fumetto, sopra la scena teatrale, la nobile scritta morettiana che chiede: “D’Alema, dicci qualcosa di sinistra”.
Erano in realtà puri sofismi. Oggi nessuno sa più che cosa sia di sinistra o di destra. La destra, come forse è noto anche a D’Alema, ha scoperto che è anche un eccellente affare economico far sparire la povertà dando soldi a chi non ne ha e rimettendo tutti nella condizione di vivere benino, se non bene, per diventare quanto prima possibile dei consumatori. Siamo agli antipodi sia di Paperino che di Carlo Marx. Quindi ingiungere a D’Alema di rispondere su che cosa sia la sinistra sarebbe soltanto un rituale di tipo azteco, cioè lontano da ogni significato moderno. Noi, almeno il direttore di questo giornale, ed io stesso che pure non sono mai stato né comunista né del PD, siamo molto contenti di questo evento. Penso che D’Alema sia una figura eccezionale del panorama politico, per motivi totalmente umani, per non dire antropologici. Io adoro la sua scostanza, i suoi musi, le sue scudisciate, il suo onesto settarismo ma anche la sua lontananza da ogni pauperismo manicheo e non voglio ritirare di nuovo in ballo la barca le scarpe il vino l’aceto i vestiti di buon taglio i baffi curati. Queste semmai sono tutte prove a suo vantaggio. Voglio raccontare brevemente i miei rapporti personali con D’Alema ma soltanto perché sono il mio strumento di lavoro per descrivere l’uomo.
Un tempo lontanissimo, quando io ero un cronista parlamentare di Repubblica i rapporti erano pessimi, il Massimo D’Alema sprezzante, quando mi incontrava nel transatlantico di Montecitorio, mi guardava senza muovere un pelo dei suoi baffi e quando ero abbastanza vicino mi chiedeva: hai fatto anche oggi il tuo compitino anticomunista? Poi con la svolta nel Pci e la fine della storia che sembrava finita invece ancora continua, non ricordo bene come, diventammo molto cordiali l’uno con l’altro. Lo trovavo nella sua stanza alle Botteghe Oscure regolarmente alle prese sul computer con un solitario di carte di altissimo livello, con cui si stava misurando. E poiché quell’epoca era in voga l’espressione polo progressista contrapposta a quella di polo conservatore, visto che si parlava sempre di un’Italia bipolare, D’Alema mi accoglieva con un sorridente “Come stai, pollo conservatore”. E io rispondevo regolarmente: come stai tu pollo progressista. Sciocchezze come si vede.
Poi accade un fatto: Letizia Moratti, Presidente della Rai, sì convinse di volermi come direttore del tg tre. Un’impresa da far tremare i polsi i quali infatti si spezzarono presto. L’allora direttore generale della Rai mi avvertì che nessuna mia nomina avrebbe avuto valore senza il previsto consenso di Massimo D’Alema. Così lo chiamai, spiegai la strana faccenda di me che dovevo chiedere il permesso a lui per assumere la direzione di Telegiornale del servizio pubblico e lui rispose: “Una tua direzione del tg3 sarebbe accolta dai giornalisti come un atto di maccartismo”. Il Senatore McCarthy, lo dico per i più giovani, fu quello della caccia alle streghe comuniste durante la guerra fredda negli Stati Uniti che portò alla cacciata e messa al bando dei molti intellettuali registi attori e sceneggiatori di Hollywood. Bocciato: non era il caso. Io ero allora un inviato della Stampa e l’ultima mia posizione politica nota era quella di un antico militante del partito socialista. Quindi mi offesi e mi incazzai. E poi da qualche parte scrissi il racconto di questa scena surreale. Il risultato fu che D’Alema mi tolse il saluto. Da allora ha fatto finta di non riconoscermi.
Eppure dovemmo passare due lunghe giornate gomito a gomito nella commissione Mitrokhin, dove l’ex presidente del consiglio ed ex segretario comunista Massimo D’Alema venne a rispondere alle domande della commissione parlamentare che riguardavano le questioni delle spie russe, ma più ancora degli agenti di influenza non solo comunisti, anzi prevalentemente non comunisti nel nostro paese. Fu un colloquio lungo e gelido, tutto agli atti.
Una cosa simile accadde con Sergio Mattarella, che di D’Alema era stato ministro e che per le sue funzioni era tenuto a sapere come si fossero svolti alcuni fatti che riguardavano i nostri servizi segreti. Anche in quel caso mi trovai di fronte a questo signore che oggi sta per lasciare il Quirinale, in un dialogo fatto di domanda risposta precisazioni sotto precisazioni, puntiglioso e per quel che ricordo non granché rivelatore.
Poi ci fu la questione di mia figlia Sabina, di cui D’Alema si dichiarava pubblicamente ammiratore televisivo, la quale volle cimentarsi nel suo secondo personaggio maschile, dopo quello di Claudio Martelli da lei ritratto in una specie di coppia gay con Bettino Craxi in tempi in cui Martelli e Craxi erano politicamente una coppia scoppiata. Per quel che ne so D’Alema fu entusiasta di aiutare Sabina a costruire il suo personaggio, ma quando poi vide in onda il prodotto finito in cui il Massimo-Sabina era destrutturato e riassemblato in una maschera comica dissacrante e dissacrata, si incazzò lui e poi non so come è andata a finire. Due espisodiucci minimi di minima cronaca, ma utili per l’antropologia di Messer D’Alema. Lui odia Renzi che ama Berlusconi che ama D’Alema che disprezza Renzi. Tutto uguale al celebre fumetto tedesco-americano in cui una gatta è pazza d’amore per un topo che la odia essendo innamorato del cane -sceriffo che ama la gatta che ama il topo che la prende a bastonate in fronte.
Così sono testimone come tutti del fatto che Silvio Berlusconi consideri Massimo D’Alema uno dei rari politici in grado di fare politica con intelligenza e con un rispettabile cinismo, e che Matteo Renzi sia per sua stessa ammissione un figlio delle televisioni berlusconiane, e che proprio per questo motivo sia stato spinto da quella parte dell’elettorato del PD che considera Berlusconi come quella specie di carro del carnevale di Rio de Janeiro che hanno messo insieme un po’ di magistrati giornalisti opinionisti e comici di scarsa fantasia, un carro da rottamare perché ora abbiamo visto finalmente un bello spicchio di verità sui famosi processi che hanno scippato un leader all’elettorato italiano. Oggi D’Alema torna di scena, prima o poi entrerà con i suoi più fidi giannizzeri al palazzetto d’inverno del Nazareno e io spero caldamente che si porti presto dietro alcuni dei suoi meglio D’Alema Boys, un gruppo di efficienti intellettuali amministratori e gente di mondo, nel senso buono, che un tempo formavano la sua Corte. Che il Pd oggi non abbia alcuna anima e che la segreteria di Enrico Letta sia ondivaga, flappa, afflitta da complessi di inferiorità con qualche mania di grandezza, benché il segretario parli benissimo italiano francese inglese, è un fatto. Noi non sappiamo se D’Alema ha una formula di sinistra da gettare sul tavolo. Una, se ce la, la tiri fuori.
Ultima tenera minima annotazione. D’Alema fece una guerra in Europa. Gli aerei militari italiani bombardarono una capitale europea per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Quella capitale si chiama Belgrado, e quando vado e la vedo ancora sventrata perché i serbi l’hanno voluta lasciare con le ferite in vista, io provo vergogna. Ma D’Alema la guerra la fece E il pilota zoccolone fu abbattuto dalla contraerea e poi restituito con molto rossore. Ma quel che ricordo -non di quella guerra ma di quella successiva, quando D’Alema era ministro degli esteri – è che il nostro trovò affascinante il segretario di Stato americano Condoleeza Rice, prima donna nera a comandare nella storia oltre ad essere una fantastica pianista e un’esperta di lingua russa, e tutti a torto o ragione attribuivano ad Alena un debole per questa donna americana che sfiorava la cotta. Certamente nulla era vero, ma questo tratto umanizzava il feroce saladino.
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