I banchi di prova nei quali si snoda il tempo dell’ormai irrinviabile aut aut che ha investito l’Europa si susseguono implacabili. In particolare, due di loro ci stanno di fronte proprio ora. Il primo investe l’esistenza stessa della costruzione istituzionale dell’Europa, proprio quella dell’Eurozona; il secondo, ma non meno decisivo, riguarda, qui e ora, la protezione sociale delle parti più povere delle sue popolazioni, sino all’emarginazione, affinché tutte e tutti, senza eccezioni, possano disporre di vitto, alloggio, vestiario, possano insomma vivere. Nessuno escluso.
L’Europa, lo sappiamo bene, è arrivata molto male all’appuntamento con l’imprevisto, con l’emergenza del Coronavirus. Ci è arrivata con un duplice distacco dai suoi popoli, democratico e sociale.

La sua crescente curvatura oligarchica e la violenta crescita delle diseguaglianze nel tempo delle politiche di austerity hanno resa ancora più precaria la sua costruzione. Maastricht e la troika l’hanno caratterizzata. Ma si sa che la crisi può costituire anche un’occasione. In ogni caso, siamo al bivio su entrambi i lati: dall’alto e dal basso della costruzione.
La riunione dei capi di governo che avrebbe dovuto varare il piano di investimenti pubblici per affrontare la crisi economica non ha prodotto alcun risultato, incoraggiando il pessimismo che già era determinato dall’analisi delle forze in campo e dalla drammatica assenza di leadership. Hanno preso – se è permesso un sorriso – dieci giorni per salvare l’Europa. Non sono i “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, quelli in cui John Reed nel 1919 ci raccontò la Rivoluzione d’Ottobre, ma certo ci portano a un appuntamento importante per il futuro dell’Europa.

La posta in gioco è l’adozione o no degli Eurobond, dell’avvio di una spesa di bilancio comune nei Paesi dell’Unione. Sarebbe la premessa necessaria per una politica economica di discontinuità col passato e col presente. Dopo una gravissima sbandata, la politica monetaria della Bce la consente, per non dire che la suggerisce.  La Banca centrale ha varato il 12 e il 18 marzo i primi due pacchetti anticrisi. Dopo una settimana, ha messo a disposizione prima 120 miliardi, poi 750 miliardi per acquistare bond governativi e aziendali nel 2020 che, sommati ai 20 miliardi di acquisto mensile, porta a oltre 1000 miliardi l’ombrello europeo sui debiti sovrani dell’Eurozona. Inoltre, essa afferma che il suo Consiglio potrà superare tutti i limiti autoimposti. Tra questi, di particolare importanza quello di superare la possibilità di comprare solo fino al 33% del debito di un singolo Paese.

A sottolinearne il peso c’è stata l’opposizione, respinta, dei governatori della Bundesbank e della Banca centrale olandese. Ma è del tutto evidente che una politica monetaria espansiva, se è assolutamente necessaria, non può essere in grado di affrontare da sola una crisi dalle proporzioni sconosciute e non può essere in grado di evitare una recessione disastrosa. Ecco l’importanza di quei dieci giorni ai quali si faceva cenno poc’anzi.  L’ha ben inteso Mario Draghi, ora che la parola tocca ai governi dell’Unione. Vestiti i panni del Gran Borghese, Draghi ha detto loro quel che sa e quel che doveva nell’interesse generale del Sistema. Il contrario ha fatto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che del tutto inopinatamente si schiera, di fatto, per la rottura tra i Paesi europei. Draghi vede bene il rischio di una recessione devastante senza un intervento pubblico di politica economica forte, unitario e capace di investire le scelte europee, cominciando dall’assorbire il debito privato in quello pubblico.

Ci si è interrogati se Draghi esprimesse così un interesse di qualche specifica grande area politica ed economica, siccome è ovvio che lo sguardo attraversa l’Atlantico. Io credo però che il messaggio sia rivolto soprattutto alla Germania e al suo governo, alla Merkel che, del resto, è allo stato la chiave di volta della situazione. Essa resiste a questa prospettiva, ma non può essere assimilata ai falchi olandesi e neppure a Weidmann, il suo governatore alla Banca centrale, come dimostra anche la scelta che ha fatto di mettere nell’esecutivo della Bce la Schabel, una personalità assai diversa dal governatore.

Draghi, credo, si rivolga contando sulla sua personalità politica proprio a lei in primo luogo, per prospettarle una scelta che è, del resto, senza alternativa se non quella della rotta, del disastro e della fine dell’Europa. Una contesa così drammatica dovrebbe poter coinvolgere direttamente soggetti sociali, istituzioni democratiche allargate, soggetti politici, dovrebbe dar luogo a relazioni internazionali attive, potrebbe persino essere l’occasione per la nascita di nuovi protagonisti politici. Finché ciò non accade, sarà bene aguzzare lo sguardo sui potenti. L’incrinatura dell’ortodossia può rivelarsi, oltreché come ovvio auspicabile, anche necessitata. Purtroppo, tutto ne fa ancora dubitare. Mentre si rivela sempre più urgente che, in un altro campo, si faccia finalmente avanti la proposta politica di una diversa economia, di una diversa società; una proposta, cioè, che possa nascere da una rinnovata critica dell’economia capitalistica dei nostri giorni.

Il secondo banco di prova non è meno importante, giacché parla della tenuta della società civile in Europa e in ogni Paese. Da noi, il problema è acutissimo. L’emergenza del Coronavirus funziona come una lente d’ingrandimento della crisi sociale che la precedeva, della destrutturazione dei soggetti sociali, del lavoro aggredito dallo sfruttamento da un lato e dalla spoliazione dall’altro, e infine, dallo svuotamento progressivo dei diritti del lavoro. Secondo l’Istat, un lavoratore su sette stava già all’inizio dell’emergenza in uno stato di povertà. La crisi ha fatto esplodere queste povertà, aggrava le disuguaglianze, potenzia esponenzialmente l’economia dello scarto. Chi stava peggio, sta ancora peggio. E spesso precipita nella privazione dell’essenziale per vivere. Tutto ciò è socialmente e persino umanamente intollerabile. Su questa lacerazione non si costruisce alcun futuro.

Nei giorni scorsi si sono segnalati al Sud anche alcuni assalti ai supermercati. Non si tratta di giustificare, si può persino pensare – come dice qualche sindaco – che esista il rischio di interventi malavitosi, ma la questione resta aperta in tutta la sua drammaticità. Ricorda l’assalto ai forni. Anche per questa acuta sollecitazione, si è aperta finalmente una ricerca e un dibattito su un intervento pubblico senza precedenti per farvi fronte. Il governo ha apprestato misure come generi alimentari e buoni pasto per le famiglie, facendo leva sui Comuni. Un’economia di sussidiarietà può essere utile, ma solo se integrativa, non sostituiva a un reddito che deve arrivare a tutte e a tutti, nessuno escluso. Si parla di un reddito di emergenza, si potrebbe parlare di un reddito di esistenza.

Ma allora deve essere deciso subito, erogato immediatamente, semplice nella sua attribuzione e capace di non lasciar fuori nessuno. Negli Usa e non solo si parla dell’helicopter money, Roubini ha proposto l’erogazione di 1000 euro a persona a tutti e per l’Italia ha fatto pure il calcolo dei costi. Bisognerebbe riaprire un discorso di fondo sul reddito di cittadinanza, per collocarlo al centro di una radicale redistribuzione del reddito, ma ora c’è un’urgenza drammatica che peraltro non lo contraddice affatto, anzi. Tutti coloro che non hanno un lavoro, che lo hanno perso, che lo hanno avuto sospeso, o che hanno una qualsiasi attività interrotta, quand’anche fosse un’attività in nero, tutti devono disporre ora di una somma di denaro per vivere, finché non possono riprendere la loro attività. Non si tratta di un’elemosina, ma una somma di denaro adeguata per vivere dignitosamente.

Fuori dalla Cassa integrazione guadagni, fuori dalla indennità di disoccupazione, fuori dalla platea dei 600 euro, che andrebbero rivisti nell’ampiezza e nella cifra erogata, fuori da tutte le varie previdenze erogate, c’è un mondo intero che non ha più alcuna risorsa né alcuna copertura sociale. A tutti la Repubblica deve dare subito di che vivere.  Una misura semplice, drastica e universale. Dovrebbe essere compito e obiettivo di tutti gli uomini di volontà e prioritariamente per una sinistra, se ci fosse. Partire dagli ultimi oggi sarebbe un buon viatico per aprire già subito, domani, la contesa per una più generale e diversa distribuzione del reddito nelle nostre società.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.