In queste ore concitate, in cui tutte le politiche pubbliche si stanno rapidamente riorientando in risposta all’epidemia di coronavirus, qual è il ruolo della politica economica? È utile ragionarci sopra organizzando il pensiero intorno ad alcuni punti che stanno fungendo da poli di aggregazione del dibattito.  Un tema ha riguardato il bilanciamento tra costi economici e benefici sanitari delle attuali norme fortemente restrittive sulla mobilità. È stato osservato come queste regole siano troppo penalizzanti per l’economia, giocando di sponda in modo più o meno esplicito con la strategia inizialmente annunciata nel Regno Unito che non prevedeva il lockdown.

Da lì il passo è stato breve e ha portato a contrapporre l’approccio italiano antiliberale e intimamente contrario all’attività d’impresa a quello anglosassone amico delle libertà individuali e dei profitti d’impresa. Al di là dei successivi ondeggiamenti dell’approccio inglese, questo trade-off, questa necessità di scegliere tra salute e profitto, si mostra subito come un falso problema non appena si adotta una logica multiperiodale. Affrontare e mitigare oggi il costo sanitario del virus è anche una condizione necessaria perché l’economia possa tornare a funzionare domani in modo ordinato. Il naturale impulso etico e la razionalità economica in questo frangente vanno nella stessa direzione. Gli irriducibili non ancora convinti leggano l’analisi di Luigi Zingales dell’Università di Chicago, il quale ha mostrato che anche secondo una logica costi-benefici, che utilizzi il valore monetario della vita umana, la tutela della salute nell’immediato è la strategia corretta da perseguire senza esitazioni.

Fissato questo punto, occorre chiedersi cosa debba fare la politica economica. L’architrave di ogni considerazione ulteriore è che questa è una crisi economica (e sanitaria) globale e che quindi la risposta deve essere globale, cioè coordinata tra paesi. La politica monetaria, al di là degli errori di comunicazione della Presidente Lagarde, ha adottato un pacchetto convincente, specie dopo l’annuncio del piano straordinario da 750 miliardi legato alla pandemia. Ma la BCE da sola non può bastare. Questa crisi ha dato un forte impulso al ruolo delle politiche fiscali.
È ormai chiaro che la contrazione del prodotto nel 2020 sarà molto forte sebbene, al momento, le stime siano ovviamente molto incerte e passibili di forti revisioni.

Per adesso si pensa che lo shock potrebbe costare all’Italia una revisione al ribasso per il 2020 dai 2 agli 8 punti rispetto allo scenario di base che prevedeva una crescita poco superiore allo zero. Per gli altri principali paesi le attese sono simili. Si tratta di numeri credibili, di fronte ai quali la risposta della politica fiscale non potrà che essere ampia. Per esempio, un’espansione pari a 2 punti di PIL, appena sufficienti a mitigare la caduta, equivarrebbe a 36 miliardi, 11 in più di quelli previsti dal decreto “Cura Italia”. Cifre rilevanti e rischiose per la sostenibilità delle deboli finanze pubbliche italiane. Se oggi si spende copiosamente, domani occorrerà anche convincere i nostri creditori che saremo in grado di ripagare il debito. È un sentiero molto stretto.

Ne discendono alcuni corollari cruciali nel definire la strategia di spesa. Primo: la spesa, fatto salvo il doveroso potenziamento delle strutture sanitarie, deve minimizzare per quanto possibile la durata della recessione più che cercare impieghi in comparti a moltiplicatore più elevato, come suggerito da alcuni. È molto importante infatti che lo shock negativo sia temporaneo, che la recessione abbia quindi un profilo a forma di “V”, ovvero con una caduta sì forte ma anche con un rapido recupero: una ripartenza lenta segnalerebbe invece che il Paese ha perso potenziale di crescita in modo permanente. E sarebbe un pessimo segnale.

In concreto, occorre: (i) proteggere l’occupazione e i redditi necessari per sostenere i consumi essenziali; (ii) proteggere le imprese da crisi di liquidità; (iii) supportare il sistema finanziario di fronte alla crescita attesa dei crediti non esigibili per evitare che una crisi nata nell’economia reale diventi anche una crisi finanziaria (e qui il ruolo della BCE è centrale). Secondo, le misure in disavanzo devono avere carattere una tantum, devono cioè prevedere già dall’inizio che termineranno alla fine della crisi. Terzo, è necessario rilanciare in modo forte e credibile le riforme strutturali di carattere microeconomico che aumentano il potenziale di crescita, dalla durata dei processi all’efficienza dei servizi pubblici: se non ora, quando? Quarto, occorre avere il coraggio politico di eliminare le spese il cui effetto sul potenziale è dubbio, quali il reddito di cittadinanza, quota cento, gli 80 euro.

Questo segnalerebbe un deciso cambio di intonazione della politica fiscale: più credibili con i mercati se consapevoli del necessario equilibrio tra il dare e l’avere. Sotto i primi due punti di vista il decreto “Cura Italia” va complessivamente nella direzione giusta, al netto dell’incredibile stonatura del finanziamento ad Alitalia. Mancano all’appello riforme strutturali e taglio delle spese poco collegate al potenziale di crescita economica. Aspettiamo speranzosi.

Resta il tema del finanziamento della spesa. La proposta degli eurobonds sarebbe l’opzione migliore, coerente con un approccio multilaterale e coordinato; ma è anche quella politicamente più difficile. L’Italia potrebbe utilizzare l’argomento forte di essere stato il primo paese a sperimentare la strategia di contenimento, con indubbio beneficio per gli altri. Diversamente, senza l’appoggio europeo ogni ulteriore indebitamento, inclusa la proposta Monti sugli “Health Bonds”, potrebbe essere difficile da gestire in futuro in presenza di una spesa per interessi troppo elevata. Lo spread è oggi più alto rispetto al 18 febbraio, giorno del paziente 1.

Qualora gli attuali strumenti non fossero in grado di calmierare gli interessi, non si dovrebbe escludere la possibilità di passare attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilità per accedere all’intervento illimitato e condizionato della BCE sul mercato dei nostri titoli di stato. Ma questo non è solo un tema economico ma anche un rebus politico: ci proteggeremmo dall’eventuale speculazione dei mercati ma apriremmo alla sicura speculazione della retorica sovranista.