Oltre a minacciarci, pare che il virus ci stia dicendo una cosa su tutte: che modelli ideali di governo non ce ne sono più. Vale per il centralismo temporeggiatore e per il regionalismo decisionista. Vale quando il ministro Boccia entra in polemica con l’assessore Gallera per le mascherine di carta igienica rifilate alla Lombardia. Vale tra gli scienziati, quando il milanese professor Galli biasima il napoletano dottor Ascierto a proposito del Tocilizumab, il farmaco anti-artrite sperimentato contro il Covid-19.

Vale per il giornalista disubbidiente che a Napoli viene messo in quarantena forzata dal governatore-sceriffo. Che a sua volta aveva forzato un precedente decreto del premier e che per due volte, dallo stesso Tar e dallo stesso presidente di sezione, per un analogo provvedimento, è stato una volta “promosso” e un’altra “bocciato”. Vale, più in generale, per il Nord efficiente andato in crisi e per il Sud malmesso che resiste. E vale per l’Occidente liberal-democratico in affanno rispetto alla Cina e per i regimi illiberali dell’Est delusi da un’Europa senza sviluppo. Del resto, quali princìpi senza vita? E quale vita senza princìpi? In altre parole, e proiettando tutto in un futuro si spera prossimo: come si guarderanno domani gli opposti?

Due libri possono aiutarci a capire. Il primo è Critica della ragione empatica, il Mulino, di Anna Donise, filosofa morale. Il secondo è La rivolta antiliberale, Mondadori, di Ivan Krastev e Stephen Holmes, rispettivamente presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia e professore alla NYU School of Law.  Finora, gli opposti hanno fatto come Aleksej Aleksandrovič con Anna Karenina. «Fu tanto atterrito dal pensiero che sua moglie potesse avere una vita intima tutta sua – scrive Tolstoj – che cercò di scacciarlo. Era questo l’abisso in cui aveva paura di guardare». È la citazione che apre il saggio di Donise. Tolstoj spiega che il marito tradito avrebbe potuto interrogarsi sulle ragioni della moglie, ma questo avrebbe comportato per Aleksej Aleksandrovič «una fatica morale estranea all’attività del suo spirito». Tradotto per noi, ora, al tempo del coronavirus, vuol dire che ci salveremo solo se riusciremo a guardare l’altro – l’altro geografico, politico, addirittura scientifico – al di là dei pregiudizi o dei soli interessi immediati. Questo vuol dire che il mondo ha bisogno di più empatia, cioè di compenetrarsi, come ha detto Obama in uno dei suoi ultimi discorsi presidenziali? Solo in un certo senso, spiega Donise, perché non bisogna confondere l’empatia con l’altruismo o la bontà.

L’empatia aiuta a “sentire” l’altro, è vero, ma proprio per questo può essere indifferente, se non cieca, ai valori. Come talvolta la simpatia. E può addirittura avere una certa affinità anche con la crudeltà. De Sade e il conte di Montecristo insegnano: bisogna conoscere bene l’altro per farlo soffrire. Dalla letteratura alla realtà, dalla filosofia alla geopolitica. Non dice nulla – chiedono Ivan Krastev e Stephen Holmes – che il modello cinese abbia fatto fin qui passi da gigante pur avendo alle spalle una lingua che pochi conoscono e tutta tesa a preservare l’isolamento culturale? Altro che empatia su scala planetaria!

La Cina non predica l’empatia né vuole essere “empatizzata”. La sua ascesa segna piuttosto la fine di quella che i due autori definiscono “l’età dell’imitazione”, quella dei sovietici per tutta la guerra fredda e quella degli americani che, anche dopo la caduta del muro, hanno provato, fino a Trump, a modellare il mondo a loro immagine e somiglianza. Invece, «a differenza dell’Occidente – spiegano Krastev e Holmes – la Cina espande la propria influenza globale senza mirare a trasformare le società sulle quali cerca di esercitare la propria influenza commerciale». A Xi Jinping non interessa la struttura degli altri governi e nemmeno quale frazione interna li controlli. L’unica cosa che gli preme è «la propensione di tali governi ad adattarsi agli interessi cinesi e a riservare alla Cina un trattamento favorevole».

La critica all’empatia come leva della intersoggettività e quella all’imitazione come strumento della geopolitica sono dunque suggestivamente convergenti. Il che se non è sufficiente a prefigurare il mondo di domani, può almeno aiutare a immaginare come potrebbe essere. «Più che appellarci ai buoni sentimenti empatici – spiega Anna Donise – si tratta, allora, di guardare all’altro come a un soggetto portatore di fini propri e di pari dignità e di rassegnarsi alla fatica morale» – quella a cui volle sfuggire Aleksej Aleksandrovič – «che questo sguardo comporta».

E guardando al mondo? Possiamo piangere in eterno la perdita del dominio mondiale dell’ordine liberale, dicono Krastev e Holmes. Ma solo se ammettiamo alternative politiche che rivaleggiano incessantemente – continuano – «sarà possibile che un liberalismo castigato, guarito dalle sue irrealistiche e autolesionistiche aspirazioni all’egemonia globale, potrà tornare a rivelarsi l’idea politica più azzeccata per il XXI secolo».  Non una resa, dunque, ma una seconda chance dopo quel che è successo all’indomani della caduta del muro di Berlino. Quando la storia sembrava finita con la vittoria del liberalismo sul comunismo.