La siciliana Emma Dante a vent’anni si trasferisce a Roma per diventare un’attrice. Si forma e lavora accostandosi al teatro d’avanguardia. L’errante vita attoriale la induce a una riflessione profonda, decide quindi di avvicinarsi alla regia e di tornare nella sua terra. Nel 1999 fonda la compagnia “Sud Costa Occidentale” con l’obiettivo di mettere in scena le oppressioni, i pregiudizi e l’immobilismo che avvelenano la Sicilia.

Negli anni la sua voce chiara e riconoscibile si è imposta in varie forme, consentendole di ottenere riconoscimenti non solo in ambito teatrale – tra gli altri Premio Ubu, Premio Gassman, Premio Abbiati, Premio Le Maschere, Premio De Sica, Premio Ipazia-, ma anche in ambito culturale –Premio Vittorini e Super Vittorini per il romanzo Via Castellana Bandiera e Premio Sinopoli per la cultura nel 2009 – e cinematografico, i suoi due film infatti sono stati premiati alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il primo Via Castellana bandiera ha ottenuto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile nel 2013, mentre Le sorelle Macaluso ha vinto il Premio Pasinetti come miglior film e come migliore interpretazione femminile nel 2020.

Emma Dante, che cosa pensa della chiusura dei cinema e dei teatri?
La ritengo ingiusta nei confronti di un comparto che era già in crisi. Potevano restare aperti seguendo i protocolli di sicurezza. Altri luoghi molto più promiscui restano aperti perché rappresentano bacini imprenditoriali più redditizi rispetto alla precarietà dell’arte.

C’è stata quindi secondo lei una discriminazione a discapito di alcuni settori?
Assolutamente. Non vedo una grande differenza tra una sala cinematografica e una chiesa rispetto al problema del contagio.

Chi ne risentirà di più?
Gli enti lirici o i grandi teatri continuano a ricevere finanziamenti pubblici. Le piccole realtà indipendenti che sono la brace ardente della cultura italiana sono ignorate come se non esistessero. Si discute tanto sui ristoranti, in un momento così grave non credo che andare a mangiare fuori sia prioritario.

La cultura invece lo è?
L’arte è un bene necessario. Queste realtà sono le fucine del sogno e l’essere umano se non sogna muore. Inoltre l’arte può aiutare a affrontare questo profondo lutto che ha colpito tutti noi, senza un’adeguata rielaborazione il cuore delle persone si indurirà.

Questa pandemia si poteva affrontare diversamente secondo lei?
L’estate scorsa avremmo dovuto fare quello che la Germania sta facendo adesso invece di vanificare gli sforzi precedenti. Che senso ha accalcarsi per i regali o nei centri commerciali? Così offendiamo migliaia di morti.

Il covid-19 sta mietendo vittime, ma sembrano solo numeri oramai.
È allucinante, in tv assistiamo a veri e propri dibattiti sui cenoni natalizi e sull’anticipare o meno la messa di mezzanotte. Questa è un’emergenza!

Qualche giorno fa è scomparso, sempre per Covid, il regista Kim Ki-duk e lei si è scagliata contro i media.
Kim Ki-duk è stato il maestro del cinema coreano, ci ha donato un bagaglio incredibile di poesia e tragedia, ha sperimentato tanto e avrebbe potuto continuare a farlo. La sua perdita lascia un vuoto. Non ha avuto dai giornali e dai media lo spazio che meritava. Scegliere di parlare di calciatori o di talent invece che di un artista come lui è incivile, la testimonianza di una totale incoerenza che questo paese mostra di avere nei confronti della cultura.

Pensa che i comparti teatrale e cinematografico riusciranno a risollevarsi?
Si risolleveranno, l’umanità non può esistere senza lo specchio di se stessa. Il teatro vivrà finché esiste l’uomo, ma ahimè a risollevarsi saranno solo le realtà più grandi. Le realtà indipendenti, i lavoratori intermittenti, il pullulare sotterraneo della cultura che tiene in mano l’innovazione, non ce la faranno. Tutto ciò che non intrattiene è stato condannato a morte.

Lei lasciò la Sicilia per diventare un’attrice, è ancora così? Per respirare e vivere l’arte bisogna abbandonare il Sud?
Qui sull’isola ci sono fermento disorganizzato e assenza istituzionale. Continua a esserci una grossa differenza tra nord e sud, anche dovuta a un controllo mafioso di certi territori. Se pensa che siamo costretti a convivere coi rifiuti e che non abbiamo l’acqua tutto il giorno può immaginare dove venga relegato il teatro.

Si può combattere la mafia secondo lei?
Cambiare la mentalità della gente sarebbe già di grande aiuto, l’atteggiamento mafioso aiuta la mafia a radicarsi sempre di più. A Palermo la prevaricazione e la prepotenza sono all’ordine del giorno.

Il suo teatro viene definito da molti teatro sociale, si riconosce in questa definizione?
Il mio è un teatro che toglie la polvere da sotto i tappeti, ha a che fare con le storture delle relazioni, con l’accettazione delle diversità, con l’elaborazione di ciò che nella vita viene accantonato perché è un problema. Il mio è un teatro politico che scopre le nervature della società, un teatro che per essere sociale deve essere politicamente scorretto. L’arte è quel luogo dove la scorrettezza, l’infamia e la volgarità devono poter essere libere, è un luogo privo di censura.

È per questo che nei suoi spettacoli usa il dialetto siciliano?
Il mio dialetto è una lingua selvaggia, sgrammaticata, maleducata, la dimensione artistica deve avere a che fare con qualcosa di indecente. I personaggi devono essere spontanei anche nella volgarità. Il siciliano è la mia lingua madre, la lingua che sentivo da bambina. Visto che quando faccio arte torno bambina voglio sentir parlare siciliano, sentirmi a casa. Molti se ne vergognano, vorrebbero farlo sparire e allora io lo esalto.

Lei ha fatto nel corso della sua carriera scelte per molti azzardate. Si pente di qualcosa?
Di non aver agito talvolta in modo crudele e feroce, di non esser stata estrema laddove avrei potuto esserlo.

E questa ferocia le avrebbe giovato?
La ferocia non porta mai benefici, porta una riflessione, porta sofferenza e tutto ciò ha a che fare con mondi sconosciuti. Non si può scoprire senza soffrire. La vita deve essere aspirazione verso lo sconosciuto.

Teatro, cinema, libri, negli anni si è espressa in molti modi. Qual è secondo lei il mezzo più potente per il cambiamento?
Per quello che so fare io il teatro. E’ il mio posto, dove mi sento più forte e persuasiva.

L’Italia le ha negato la possibilità di essere madre, è vero?
In Italia non sono mai stata considerata come una probabile madre. Volevamo adottare un bambino e sebbene avessimo ricevuto l’idoneità in tal senso, anche con un punteggio alto, dopo tre lunghi anni di esami, nessuno ci ha mai contattato. Non ci siamo arresi e grazie all’adozione internazionale oggi io e il mio compagno siamo genitori. Mi sento madre tanto quando una donna che ha partorito suo figlio.

E' autore di romanzi sulla discriminazione e i diritti civili. Tradotto in inglese e spagnolo, ha scritto la trilogia di Bambi, prima trilogia italiana incentrata sull'identità di genere e l'orientamento sessuale, opera pubblicata nel volume “Bambi. Storia di una metamorfosi” (Avagliano, 2022). La sua produzione letteraria comprende inoltre testi per ragazzi utilizzati nelle scuole. Reali scrive per Il Mattino e collabora con HuffPost Italia.