Quello di Isabella Conti è stato tra gli interventi più appassionanti e applauditi dell’ultima Leopolda. Appena è scesa dal palco è stata accolta da un abbraccio corale: ha ribadito l’ancoraggio di Italia Viva a sinistra, ha chiarito l’esigenza del dialogo aperto con le Agorà del Pd e però anche escluso dal perimetro d’azione i Cinque Stelle. “No ai populisti e no ai sovranisti” è stato lo slogan che, così sintetizzato da Conti, è diventato quello ribadito da Matteo Renzi. Anche Isabella Conti, dopo aver letto l’appello di Piero Sansonetti per una donna alla guida dei riformisti, lo sostiene.

Ha detto che Italia Viva deve rimanere saldamente a sinistra, è così?
Penso che non ci sia spazio al centro. Men che meno in un’alleanza con quelli che si reputano moderati di centrodestra, ma che negli ultimi anni non hanno mai detto una parola per prendere le distanze dalle politiche salviniane. Perché credo che non esista un riformismo di destra. Credo che il solo e vero riformismo sia stare nel centrosinstra. Perlomeno questo è il riformismo che ho imparato a praticare da amministratrice locale.

Matteo Renzi dice un’altra cosa, quando parla di nuovo centro.
Certo, non si può dire che non ci sia una dialettica interna insomma. E mi pare sano e salutare, per un partito che ragiona e dibatte di tutto.

La sua è una storia di sinistra.
Sono nata nella Sinistra Giovanile, cresciuta nei Ds e poi ho contribuito a fondare il Partito Democratico. Sono uscita da quella famiglia nel 2019, non sono una persona che riesce a cambiare partito con leggerezza. Giusto scegliere il partito nel quale militare con libertà, ma per chi pratica e esercita la politica, ci vuole un’identità. Il mio partito è la mia faccia. Chi la mette in gioco rischia di perderla.

Questo rischio c’è oggi in Italia Viva?
No, sto dicendo che ho una mia linea, un mio pensiero e una mia visione di quello che dovrebbe essere un partito riformista. E di quelli che devono essere gli interlocutori dei quali dovrebbe circondarsi.

Quali sono i punti nevralgici di un partito riformista?
In primo luogo l’equità e la giustizia sociale, tradotti in politiche serie per le fasce grigie. Dove per fasce grigie intendiamo quella porzione di popolazione – che è ormai la stragrande maggioranza del nostro Paese – che fino a 15 anni fa era nella fascia media, comunque in grado di guardare al futuro come una promessa e non come una minaccia, e che oggi sta scivolando verso il basso. E poi le imprese, lo spazio per l’espressione del lavoro che è la prima forma di welfare esistente.

E non si può parlare di riformismo in campo largo, con chi ci sta?
Ma le identità di cui parliamo segnano il campo di chi ci sta. Noi dobbiamo parlare agli ultimi e ai penultimi della società, la destra parla solo ai penultimi proponendo di prendersela con gli ultimi. Sono visioni non conciliabili. La dignità e la prospettiva di vita che dobbiamo dare a tutti è la stessa, loro soffiano sullo scontro.

Forte di questa sensibilità, va incoraggiato il dialogo con il Pd?
Penso sia importante cogliere l’opportunità delle Agorà, e io sulla Città metropolitana di Bologna dialogo con il Pd quotidianamente. Penso che le Agorà possano essere uno strumento di confronto e di apertura nel centrosinistra.

E invece è alle viste un soggetto riformista unitario con Renzi, Calenda e Della Vedova?
Dipenderà da quel che succederà nei prossimi mesi, dalla partita del Quirinale agli equilibri che porteranno a individuare la nuova legge elettorale. Sono scelte tattiche che dipenderanno da contesti che vedo difficile anticipare oggi. Nessuno sa quel che accadrà. Dopodiché ribadisco: io non mi sposto dal centrosinistra. La storia del centro, dal punto di vista dell’approccio e dei valori, è distante da me. E potremmo non trovarci in grande compagnia, diciamo.

È venuto il tempo di un salto di qualità delle donne? Il momento di una donna protagonista magari a partire dall’occasione offerta dalla storia, con l’esigenza di dare vita ad una federazione riformista?
Ci credo moltissimo. È ora che le donne osino dove non hanno mai osato. Il tema della leadership femminile ci deve interrogare tutti, e abbiamo donne di qualità e di grande storia tra noi. Ciascuna di noi deve essere oggi messa in condizione di alzare la mano e dire: “io ci sono, accetto la sfida”. Accettando anche l’idea di perdere, come è successo a me a Bologna. Il paradosso è che l’unica leader di partito oggi è a destra, con Giorgia Meloni. Lo spazio da conquistare adesso è nel nostro campo.

Di tutte le rivoluzioni sognate nel Novecento, quella che ha messo radici più forti è la rivoluzione delle donne.
Guai a darla per vinta, siamo nel mezzo della traversata di un deserto, c’è moltissimo da fare. A partire dal riconoscimento del lavoro di cura, dell’omogeneità delle possibilità di accesso al lavoro. Le donne pagano sempre di più, dal punto di vista sociale, tutte le crisi. Quella economica e quella pandemica sono crisi pagate dalle donne, per la condizione di diseguaglianza data non dal merito ma dalla loro appartenenza sociale ed economica. Il principio di uguaglianza deve essere sostanziale e non formale, come dice l’articolo 3 della Costituzione.

Anche il gender pay gap non è un tema da poco. E non è da meno quello della violenza economica. Sono anche questi aspetti da ricordare oggi, celebrando la giornata sulla violenza maschile contro le donne?
Certo. Le condizioni di sudditanza si generano dove c’è disuguaglianza sociale ed economica. Una donna che sta a casa e non lavora non può prendere in mano le redini della propria vita. E ci sono tanti uomini che non picchiano le loro compagne ma le costringono a stare a casa, tenendole in uno stato subordinato, non dignitoso, umiliante. Lì si consuma il maggior numero di prevaricazioni. E in quell’acquitrinio germinano i batteri della violenza fisica.

La violenza contro le donne si inizia a combattere a scuola?
Sì, è un percorso culturale che deve coinvolgere tutti, ciascuno nel proprio ambito. Le istituzioni, le famiglie, l’educazione dei più giovani. E soprattutto dei maschietti, che devono liberarsi da ingerenze patriarcali e stereotipi di genere.

È violenza culturale anche quella della vignetta del Fatto sulla Leopolda?
Quell’immagine è talmente, tristemente eloquente che non credo vi sia niente da aggiungere.

C’è una donna che sta lavorando sul fronte delle riforme per rimediare ad anni di populismo giudiziario, la ministra Marta Cartabia.
Una donna che stimo moltissimo. Una figura tecnica preziosissima, coraggiosa e non condizionabile e quindi paradossalmente anche un vantaggio per noi riformisti, essendo tecnica e competente può muoversi senza logiche di appartenenza. Però la politica ha il dovere di tracciare una rotta. E gli spunti dei referendum sulla giustizia sono molto interessanti, c’è molto da fare a partire dalla riforma del Csm su cui cogliamo il richiamo del Capo dello Stato.

Che la prossima volta potrebbe essere una donna.
Magari. Quando si parla di donne al potere, troppe volte si finisce per dire “la prossima volta”…

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.