Le attese della vigilia non sono state tradite: alla Leopolda si parla di giustizia, e senza paura. Ne parla un parterre di invitati che a buon diritto rappresenta il mondo garantista; l’onorevole Enrico Costa di Azione, il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, il giudice Carlo Nordio, il presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza e il giornalista Alessandro Barbano. È Costa a suggerire il titolo della giornata ai congressisti: il ‘diritto a una giustizia giusta contro l’esondazione della magistratura’. Vasto programma, articolato su due linee: il referendum con i suoi sei quesiti e l’approvazione in tempi rapidi da parte del governo delle linee guida per l’attuazione della normativa, già approvata dal Parlamento, sul rimborso delle spese legali per gli assolti.

Sabino Cassese è in collegamento con la Leopolda da casa, ma è casa sua anche la Leopolda, gli fanno sapere i duemilacinquecento partecipanti che lo accolgono con una standing ovation da rockstar. È il suo intervento a scaldare i cuori della kermesse renziana e ad emozionare, come confida egli stesso, Matteo Renzi.

Ci sono sei milioni di processi pendenti, ecco perché ogni anno il grado di fiducia degli italiani verso la giustizia scende. Non c’è sintonia tra ordine giudiziario e Paese”, inizia col dire Cassese. E poi specifica: “L’indipendenza dei magistrati, principio sano, è diventato autogoverno. Quello dei magistrati è diventato uno Stato nello Stato. Un esempio? Il Csm non fornisce i dati dei suoi dipendenti al Ministero delle finanze, ritenendo di essere un piccolo Stato. La Costituzione separa i poteri ma una parte dei magistrati tiene per sé le posizioni più importanti nel ministero della Giustizia. Unico a essere citato in Costituzione, il ministero avrebbe una funzione amministrativa. Invece esercita altre funzioni”.

Cassese va veloce, malgrado le interruzioni degli applausi. “Non erano stati previsti dai Costituenti i danni derivanti dalla politicizzazione endogena alla magistratura. I poteri invece che essere separati, sono concentrati all’interno dell’ordine giudiziario”. Ed eccolo citare per esteso l’articolo 111 della carta costituzionale: “l’accusato deve essere informato riservatamente delle accuse. Invece le accuse si fanno in pubblico, l’accusa diventa un giudizio e si verifica l’additamento al pubblico ludibrio”.
Cassese legge poi un resoconto dall’apertura dell’anno giudiziario: “ogni anno abbiamo almeno 150.000 indagati, poi imputati, che attendono almeno quattro anni per essere assolti in primo grado. In cinquant’anni ne mandiamo a processo oltre sette milioni che verranno poi assolti. Questo è lo stato della giustizia in Italia”. E di nuovo il pubblico in sala lo omaggia, tutti in piedi.

“Bisogna lavorare sulla responsabilità professionale del magistrato: il magistrato deve rispondere di ciò che compie“, grida Caiazza dal palco. “Quello giudiziario è un potere – ha aggiunto – che è in grado di condizionare, di controllare e di determinare l’ esito della vita politica, l’esercizio del potere legislativo, anche solo con una iscrizione nel registro delle notizie di reato. Questo squilibrio che non ha pari in nessun paese è il punto cruciale”

È Costa a tornare su quella correlazione endogena tra magistratura e politica: “Una volta si diceva che i giudici parlano con le sentenze. Adesso i magistrati, presenti ovunque nello spazio pubblico e nella politica, finiscono per parteggiare. E incidono sull’imparzialità necessaria”.
Alessandro Barbano gli succede sul palco per chiamare in causa Piercamillo Davigo. “Dice che sono tutti colpevoli tranne lui. Oggi la giustizia è la più potente macchina di dolore umano presente in questo Paese. Stiamo attenti anche a pensare che sotto l’ombrello di legalità dell’antimafia ci sia tutto il bene del mondo, perché lo stato di eccezione è diventato la regola. Non si possono sequestrare beni a cittadini non ancora colpevoli. Non può esistere un ergastolo ostativo che annulla le premialità a meno che non si abbia collaborato attivamente con il pm”, riassume.

A quel punto l’attenzione è per Matteo Renzi. Che parte così: “Oggi ho imparato anche io, perché si fa politica per imparare. Abbiamo sentito Barbano, Costa, Caiazza, Nordio e Cassese. Da tutti loro c’è qualcosa da imparare, e però adesso c’è qualcosa che vorrei dirvi io. Parliamo del caso Open”. La sala presta orecchio. Compaiono sulla retroproiezione quindici prime pagine del Fatto Quotidiano, tutte dedicate alla Fondazione Open. “Ci sono scandali quotidiani, dalle mascherine ai soldi del Venezuela, ma a loro interessa solo di Open”, scalda i motori Renzi. Che riassume tutta la vicenda. Ci mette poco più di un’ora, scandendo la cronistoria, dettagliando l’operazione dei finanzieri, i sequestri dei telefonini poi revocati, la ricorrente attenzione degli stessi pm sulle stesse persone.

“Hanno ritenuto penalmente rilevante, facendo la pesca a strascico, tutto ciò che io e Marco Carrai ci siamo scritti. C’è la trascrizione di un lungo dialogo che abbiamo a proposito di un comune amico malato di tumore, c’è un dialogo in cui gli chiedo di aprirmi il cancello per tenere buono il suo cane”, racconta il leader di Iv a una platea divertita. “Non c’è niente da ridere, non mi applaudite. C’è da essere preoccupati, e non per me. Ma perché questo può accadere a ciascuno di voi, alle nostre famiglie e ai nostri amici”. Sono stati, in effetti, decine e decine i telefoni cellulari, gli iPad, i computer sequestrati a tutti i sottoscrittori, non indagati, di piccole donazioni alla fondazione Open. Operazioni effettuate da trecento militari armati, entrati alle 6,30 del mattino in abitazioni di persone che mai avevano avuto a che fare con la giustizia, che senza essere iscritte in alcun registro degli indagati, senza aver potuto parlare con gli avvocati, hanno visto portarsi via i telefoni personali. Gioverà ricordare che l’operazione, avvenuta nel febbraio 2015, non ha ancora visto restituire tutti i computer ai legittimi proprietari.

E c’è poi la questione più recente e scottante, la pubblicazione illegale dell’estratto conto bancario del senatore Renzi. “Del tutto rispondente alle cifre da me indicate nella dichiarazione dei redditi”, precisa lui. La rabbia è composta; Bersani, chiamato in causa come teste dell’accusa, viene appena fischiato da uno dei presenti. Renzi redarguisce: non si fischia nessuno. Ma ricorda come la vicenda del finanziamento dei Riva, 98mila euro percepiti da Bersani, sia del tutto assente da qualsiasi dibattito televisivo. “Io invece devo approfittare qui della platea della Leopolda perché a Ottoemezzo è un po’ più difficile parlare”, dice sorridendo.

“Ribatterò punto su punto, i magistrati sappiano che chiederò di parlare sempre, di essere ascoltato su tutto, a costo di farmi odiare anche dai miei avvocati”. Ha tutti gli argomenti. “Prima di tutto spiegherò loro cosa è fare politica, con la P maiuscola. Poi cosa significa fare un partito, e cos’è una corrente”. La Leopolda è sempre stata una kermesse aperta a voci diverse, un grande Ted Talk in cui si susseguono interventi di imprenditori, sportivi, scienziati, innovatori che non fanno e non faranno mai politica. Per molti anni il Pd aveva contestato Renzi di non voler esporre in Leopolda le bandiere del partito. “Non farò mai una corrente”, aveva detto lanciando Leopolda, e così è stato. “Non farò mai della Leopolda una operazione del Pd”, aveva detto. E così è stato.

L’antipolitica ha fatto il resto, confondendo i piani. Scambiando una kermesse di idee per un conclave di corrente tipo Todo Modo. Arriva la solidarietà di Irene Tinagli, oggi dem, e vengono in Leopolda a stringere le mani del leader Iv anche il sindaco di Milano Beppe Sala, il sindaco di Firenze Dario Nardella, il sindaco di Genova Marco Bucci. Renzi è rimasto indigesto alla vecchia politica perché trasversale alle logiche di convento. “Ma ci sono magistrati che non lo capiscono, e sapete perché? Perché replicano le logiche che ben conoscono, quelle delle correnti interne alla magistratura. Pensano che anche la politica funzioni come il Csm. E invece no, nel mondo della politica non basta aderire a una corrente per fare carriera, qualche volta si può avere successo scardinando le correnti, andando controcorrente”, conclude dal palco.

 

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.