Gestire una vittoria elettorale per un partito non è meno complicato che leccarsi le ferite causate da una sconfitta. Soprattutto se non si comprende la ragione del successo momentaneo, si rischia di compromettere tutto il cammino che resta ancora da compiere per ascoltare la ingannevole ebbrezza provocata dalla certezza di un trionfo. Per come ha reagito all’ammutinamento del disegno di legge Zan, il Pd sembra afflitto dalla tipica boria di chi è contagiato dalla sindrome del successo come un bene già incamerato.

Dietro la rinuncia a ogni ragionevole compromesso sulle implicazioni più controverse della legge sull’omofobia, per inseguire il fascino dell’incidente in aula in modo tale da cadere ma in nome di un sacro principio non negoziabile, c’è la convinzione di godere ormai di una centralità sistemica che giustifica censure, esclusioni, semplificazioni. La condanna di Italia Viva, raffigurata come una irrecuperabile forza della destra, è frutto di uno strabismo analitico che andrebbe sempre scongiurato, tanto più da chi predica la necessità di campi larghi. A determinare certi rigurgiti di settarismo post-democristiano c’è anche la modalità lettiana di costruire la sua nuova immagine nei termini di uno storytelling che richiama in maniera quasi ossessiva un lontano torto subito da Renzi, che dopo l’hashtag #enricostaisereno annunciò la fine del suo mandato a Palazzo Chigi. Il rinvio a un’azione drastica che determinò la bruciante rimozione, e quindi all’immagine del campanello che rese drammatico il giorno del cambio della guida del governo, comporta il disegno di fondare la leadership come una dote legittimata dal ricordo di un grave torto subito.

Questo rinvio alla ferita mai rimarginata contiene però non solo i rischi di uno spirito di vendetta che offusca la lucidità tattica, ma nasconde anche l’inconveniente di non risultare molto efficace nella costruzione dei requisiti di una leadership. Il motivo lo suggeriva Aristotele. Quando si ricorre alla narrazione nei discorsi pubblici, “la narrazione deve essere espressiva di carattere”, cioè deve sprigionare ethos, indicare il prestigio. Ciò per Aristotele significa evocare esperienze meritevoli di ammirazione, gesta significative che giustificano considerazione, realizzazioni che meritano un senso di rispetto. Invece di insistere su questi profili del carattere o ethos che rendono credibile un leader politico per via dei successi, Letta riporta come motivo essenziale del suo agire attuale il ricordo di un misfatto che ancora lo tormenta. Su un torto, su una sconfitta un leader non può però edificare ethos, lanciare una promessa di vittoria. Il ritornello che accompagna la narrazione di Letta è che in passato un nemico interno lo ha costretto all’esilio e il suo ritorno da segretario serve per riparare in qualche modo all’offesa dando sfogo ad un sano spirito di vendetta.

Il copione torto-fuga-ritorno è trasparente quando Letta dichiara: «In Italia ero totalmente dimenticato. Quando sei stato primo ministro e sei buttato nel cestino ti dici: sono un mezzo fallito. Poi le esperienze parigine, con i collaboratori, i professori e gli studenti mi hanno cambiato la vita. È stato un inizio duro, durissimo, ma queste cose me le tengo dentro, ho fatto un percorso individuale per capire se fossi in grado di insegnare e dirigere quei sette master». Sembra più il profilo di un cervello in fuga, che recrimina contro chi lo ha ostacolato in patria e che al momento della richiamata avverte una gradevole sensazione di rivincita, che non il requisito necessario per la edificazione dei pilastri di una leadership politica. Nella costruzione dell’immagine di sé Letta si sente come un cervello incompreso e trattato come un fallito più che come un capo politico temprato dalla lotta e dalle sue inevitabili asprezze. Da giovane, ripete sempre, «ho corso troppo e mi sono trovato a Palazzo Chigi senza aver pensato cosa fare quando fossi stato lì. Poi quando sei sulle montagne russe non pensi, anzi pensi: speriamo che finisca il più presto possibile. Ricordo quell’esperienza come un frullatore angosciante. Per me è stato fondamentale uscire. La brutalità di quel passaggio è stata una fortuna perché mi ha obbligato a guardarmi dentro e a dire: voglio vedere se riesco a fare qualcos’altro nella vita».

Dopo il valore riconosciuto alla fuga di fronte a un trauma e a una sensazione di angoscia è difficile fondare il richiamo della leadership, che deve pur sempre sprigionare nell’elettorato una ragionevole aspettativa di vittoria. Per aprire una prospettiva politica Letta dovrebbe rinunciare alla forma dello storytelling. Spiegava Aristotele: «Se vi è narrazione, essa sarà delle cose passate, al fine che, ricordandosi di quelle, gli ascoltatori meglio deliberino sul futuro; oppure per accusare, o per lodare» (Retorica, 1417 b 15). La forma della narrazione conduce ad effetti disfunzionali se il passato evocato rinvia alla rimembranza di una lontana sconfitta che consigliò la fuga dinanzi a una prepotenza. Il fatto è che il copione di questo storytelling rivolto al passato e cucito attorno al “pisan fuggiasco” comporta chiusure, desiderio di rivalsa e cioè l’adozione di un abito mentale che è il meno consigliabile per chi, frenando la certezza di aver la vittoria in tasca, deve con pazienza definire alleanze, stringere patti.

La scomunica di Italia viva, bollata come una cattiva formazione della destra, obbedisce alle esigenze di una narrazione che avrà pure il trascinamento emotivo di un telefilm ma che non promette nulla di buono nello scivoloso campo largo della politica. Più che dalle pratiche neorinascimentali di cui Renzi è un maestro, il Pd dovrebbe guardarsi dagli inconvenienti prodotti dalla psicologia politica del risentimento che accompagna il suo segretario.