Il voto tedesco e le sue possibili ricadute sul quadro europeo e sull’Italia Il Riformista ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica. Per l’Italia, sostiene Caracciolo, è suonato un campanello d’allarme. E spiega: «Temo che per l’Italia le conseguenze del voto tedesco non saranno positive. E non solo perché quello che potrebbe nascere a Berlino è un Governo alquanto eterogeneo e senza un cancelliere forte, ma soprattutto perché il pericolo per noi è che nella trattativa dell’anno, nel 2022 le cancellerie europee discuteranno se riformare o non riformare la politica fiscale dell’Eurozona, il rischio è che questo Governo imperniato sui Liberali, che di questa nascente coalizione alquanto eterogenea saranno i kingmakers, possa spingere per il ritorno a una iper austerità. E quindi questa fase di Bengodi che sta durando da un po’ di tempo potrebbe finire. E visto che la Germania in ultima istanza è il garante del nostro debito, quelle che potrebbero giungere da Berlino non sono buone notizie».

La Germania del dopo-Merkel: un vuoto incolmabile di leadership per l’Europa?
Non è che gli ultimi anni del cancellierato Merkel fossero stati proprio all’insegna della leadership. Certamente il prossimo Governo, quale che esso sia, non sarà caratterizzato dal cancelliere. Oggi Scholz e tanto meno Laschet non possono vantare un’autorevolezza personale paragonabile a quella della cancelliera uscente. Ma la cosa veramente strutturale è che l’interesse nazionale tedesco è sempre meno compatibile con l’interesse dei principali Paesi europei come la Francia e l’Italia, da una parte, e dall’altra, per altri motivi, la Polonia e i Paesi dell’Est. La centralità della Germania sarà più pallida nel futuro.

In questa fase post elettorale, Bruxelles, intesa come Ue, sembra “tifare” per una riedizione della Grande Coalizione Spd-Cdu-Csu, a cancellieri invertiti. Ma il cancelliere papabile, Olof Scholz, sembra però voler puntare alla costituzione di un Governo a tre con Verdi e Liberali. In questo senso, si può parlare di una possibile svolta politica in Germania?
Per ora assolutamente no, se non intendiamo per svolta una frammentazione, che secondo me è ancora allo stato latente, iniziale, del sistema partitico tedesco. E questo in un Paese come la Germania, che è uno Stato di partiti, significa anche una crisi dello Stato. Io penso che la stessa Cdu sia a rischio, dal punto di vista della sua unità…

Perché?
Perché ha subito una batosta dopo l’altra, si è costretta, perché nessuno glielo aveva detto o imposto, a inventarsi un candidato del tutto improbabile e impresentabile. Ci sono poi i bavaresi della Csu che sgomitano e fanno notate che forse con il loro capo, Markus Söder, il cancellierato sarebbe stato molto più probabile, e quindi le tendenze che già sono presenti internamente alla Cdu e che la stanno comunque spostando più a destra di prima, potrebbero portare a qualche forma d’implosione.

Per restare ad un’analisi delle più importanti forze politiche tedesche. Una certa narrazione “nuovista” aveva relegato al Spd tra i reperti di archeologia politica del secolo scorso. Alla luce dei risultati di domenica scorsa, non è stata una narrazione troppo affrettata e alla fine sbagliata?
Sì, ma non è una grande vittoria della Spd. È più che altro una crisi sistemica in cui i due grandi partiti di massa, insieme, fanno veramente poco, più o meno la metà degli elettori. E questo cambia totalmente il paradigma. Il che significa che il processo di cui parlavo prima si sta accelerando. In più segnalerei anche il fatto che la diversità antropologico-culturale tra Est e Ovest si è confermata, con la AfD che ottiene buoni risultati all’Est, anche con punte di leadership in regioni come la Turingia e la Sassonia, mentre all’Ovest continua a balbettare. E un partito come la Linke che mantiene ancora una sua vita grazie soprattutto alla ex Ddr.

Tornando all’orizzonte europeo. Con la guida tedesca, l’Europa ha guardato soprattutto a Est, mettendo in secondo piano l’area euromediterranea…
Più che di Est parlerei di Nord, o se vuole di Nord-Est, perché alla fine i parenti della Germania sono gli scandinavi, l’Olanda, quando c’era l’Inghilterra e, in seconda istanza l’Europa centrale o ex Est, innanzitutto la Polonia. Certo oggi la Germania sa e capisce che il Mediterraneo può essere decisivo perché è la via delle migrazioni, perché c’è un grande Paese, cioè l’Italia, che attraversa ancora una fase di forte instabilità, e questo ha delle conseguenze dirette sulla Germania visto che il nostro Nord è parte integrante del sistema industriale tedesco, che è poi la ragione per cui noi siamo nel Ricovery fund o Pnrr come lo si voglia chiamare. La Germania deve guardare a Sud perché è nel suo interesse. Però tende più che altro a guardare oltre Europa, e cioè alla Russia per l’energia e alla Cina come mercato e come industria.

In queste ultime settimane, sulla scia dei drammatici accadimenti in Afghanistan, si è tornato al parlare della necessità di un Esercito europeo. Lei come la vede?
La vedo male. L’Esercito è uno “strumento” non un “fine”. Ed è uno strumento, quello ventilato, destinato a non funzionare, di più a non esistere, se manca, come manca, un soggetto politico europeo. Se non c’è uno Stato non puoi avere un esercito. E non mi pare che all’orizzonte si intravveda uno Stato federale europeo o qualcosa che gli assomigli. Le parole hanno un senso. Se si parla di Esercito europeo si fa riferimento a una Forza militare composta dai 27 Paesi dell’Unione Europea. Cosa che francamente mi sembra difficile solo a pensarla. In questo caso, vale il vecchio adagio “il poco è meglio del niente”…

Vale a dire?
Si potrebbe ipotizzare che, preservando la propria quota di sovranità e i propri interessi, alcuni Paesi si mettano d’accordo, anche con un certo grado di integrazione fra le rispettive forze armate, per fare delle missioni insieme. Ma anche qui è necessario una volontà politica che, al di là di alcune generiche dichiarazioni d’intenti, stenta a manifestarsi.

Una Europa senza più una forte leadership può avere l’ambizione di riequilibrare, in una chiave paritaria, il rapporto con l’America di Biden?
Non è che ci fosse una leadership dell’Europa. C’era una capacità tedesca di mediare in ultima istanza le differenze che esistono nello spazio dell’Unione europea e in particolare dell’Eurozona. Molto di più non si può fare. E anche se dovessimo immaginare una leadership dell’Italia in ambito Ue, il risultato non sarebbe per questo una soggettività dell’Europa, ma sarebbe un altro tipo di compromesso. Però questa seconda ipotesi per il momento tenderei ad escluderla. Nell’Europa ideale che esiste solo nelle fantasie degli europeisti, il punto di ripartenza sarebbe un esercizio di ripensamento strategico fra tutti i soci veterocontinentali della Nato da riportare in corale consonanza al Numero Uno. Così non può essere perché nell’Europa reale ognuno è confitto nel proprio legittimo interesse nazionale, o in quel che spaccia per tale. Se imperativo dell’ora è recuperare il principio di realtà per provare a contare qualcosa in questo mondo e non nelle siderali orbite dei princìpi ultimi e primi, conviene che ciascun soggetto riesamini il suo modo d’intendersi atlantico. Per poi stabilire a un tavolo di adulti europei e nordamericani se questa Alleanza Atlantica fa ancora senso oppure no. Nel secondo caso, come riformarla. O superarla. Sapendo che la prima e ultima parola spetterà agli Stati Uniti. Gli americani l’hanno inventata e loro chiuderanno questo colossale deposito di mezzi quando lo scopriranno definitivamente senza scopo. Quanto poi al disastro afghano, dopo vent’anni di pseudo-coalizione, dove ognuno ha fatto gli affari suoi, con gli europei che fingevano di combattere e gli americani che fingevano di ascoltarli, nessuno può ergersi ad autorità etica. Noi meno di altri.

La cancelliera Merkel si appresta a uscire di scena. In Francia le cose sembrano mettersi male per Macron in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. Alla fine questa corsa ad esclusione non potrebbe fare di Mario Draghi il futuro dell’Europa?
Intanto speriamo che sia il futuro dell’Italia ancora per un po’, perché altrimenti mi pare difficile che l’Italia possa avere un futuro nel giro di un anno o due. In secondo luogo, sicuramente Draghi è un moltiplicatore della nostra potenza. Il guaio di Draghi è che è un pilota da Formula uno che guida una Formula tre.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.