Quel memorandum della vergogna e l’indifferenza ostile che si fa politica. Il Riformista ne discute con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Dal 2017 ad oggi quasi centomila persone sono state intercettate dalla cosiddetta Guardia costiera libica e rigettati forzatamente in Libia. Cinque anni del Memorandum d’intesa Italia-Libia. Cosa si può dire padre Ripamonti?
Si può dire che il Memorandum non aiuta le persone ma lo ha dimostrato in questi cinque anni di attuazione, rende ancora più complessa la loro vita e rimandandoli nei centri di detenzioni libici l’aggrava. Questi viaggi diventano ancora più onerosi e più difficili e creano danni alle persone. Non è questa la soluzione, pur avendo visto negli anni come, prima con la Turchia e poi con la Libia, questo processo di esternalizzazione è diventato lo strumento dell’Europa per far fronte all’immigrazione. In questi 5 e più anni al Centro Astalli abbiamo ascoltato ogni giorno i racconti di chi è riuscito ad arrivare vivo in Italia, affidandosi ai trafficanti. Si tratta di una percentuale minima dei tanti che hanno provato invano ad attraversare il Mediterraneo: uomini e donne per lo più molto giovani: in tanti portano i segni delle torture subite, parlano di amici, parenti, figli morti di stenti o uccisi davanti ai loro occhi. Le donne che assistiamo sono quasi tutte vittime di violenze e torture. L’Italia, assecondando le politiche di chiusura europea, continua ad essere complice di un abominio.

In nostre precedenti conversazioni, lei ha molto insistito sul concetto dell’indifferenza. Questa indifferenza è entrata anche nei palazzi istituzionali. Nel dibattito parlamentare sulla fiducia al governo Meloni il tema dei migranti, dei corridoi umanitari, dell’inclusione è stato off limits.
In questi anni un po’ tutti, salvo poche eccezioni di alcuni parlamentari in un modo trasversale, non si sono mai avventurati nel sostenere apertamente, con coraggio, né i corridoi umanitari né la rinegoziazione del Memorandum con la Libia. Questa è solo l’ultima parte di un percorso che negli anni è mancato di quel coraggio, di quell’umanità che invece dovrebbero essere alla base della politica e soprattutto di un vivere civile che sia umano. Se la politica continua a girarsi dall’altra parte o a liquidare il tema proponendo il blocco delle partenze attraverso l’esternalizzazione delle frontiere, la società civile deve potersi sentire rappresentata nell’esprimere una voce alternativa: salvare, accogliere e convivere pacificamente con persone di origine straniera. Le migrazioni verso l’Europa vanno gestite nel rispetto dei trattati internazionali, delle leggi del mare, dei diritti umani universalmente riconosciuti e dei basilari principi di civiltà per cui lasciar morire un essere umano in mare o in un Paese non sicuro non può essere mai la soluzione. Come Centro Astalli non smetteremo mai di ribadire che è urgente un approccio organico e strutturale basato su trattati e convenzioni esistenti ma che deliberatamente non trovano applicazione, come la direttiva 55/2011 sulla protezione temporanea e gli strumenti che questa prevede. È quanto mai urgente attivare canali umanitari sicuri per i migranti in fuga da guerre e persecuzioni. Si eviterebbero così migliaia di vittime dei viaggi e un allarmante aumento di razzismo e xenofobia da parte della società civile.

Si ritorna a parlare di porti chiusi, di respingimenti in mare di navi di Ong. Padre Ripamonti, le lancette della storia vengono rimesse indietro?
Purtroppo profeticamente Papa Francesco ha detto anche nella Fratelli tutti che la storia in questi ultimi tempi sta segnando un ritorno indietro, Con l’aggravante, però, che noi abbiamo già vissuto certe situazioni di ingiustizia, di orrore, di crimini contro l’umanità e dovremmo essere ancora più consapevoli che questo modo di procedere non solo non funziona ma che aggrava ulteriormente la condizione delle persone migranti. Addirittura in una omelia, Papa Francesco ha definito l’esclusione dei migranti schifosa, peccaminosa, criminale, usando parole molto forti. Nonostante questo assistiamo a un ritorno indietro che è ancora più grave perché noi sappiamo che questo modo di procedere non funziona e che aggrava soltanto la situazione. Le persone che saranno ritardate nel loro arrivo in Europa, arriveranno con ancora più traumi e saranno persone ancora più fragili nel loro inserimento nel territorio europeo. È invece urgente trovare altre modalità. E altre modalità sono i flussi regolari, i flussi legali, i corridoi umanitari. Sono l’evacuazione di quei centri di detenzione che a detta non solo delle Ong ma anche dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono un luogo di violenza intenzionale e di tortura di queste persone.

Lei è molto attento ed equilibrato nell’uso delle parole. Perché, le chiedo, quando continuano a consumarsi stragi di innocenti in mare o sulla rotta balcanica, si continua a utilizzare nelle dichiarazioni come nei titoli di giornali, con poche eccezioni tra le quali Il Riformista, la parola “tragedia” e non quella, più rispondente alla realtà dei fatti, di “crimine”?
Ormai dopo tanti anni forse sì, sarebbe il caso di utilizzare la parola crimini. Tragedia rimanda a un qualcosa di “naturale”, di inevitabile. Così non è. Sono crimini, dei quali noi Europa, noi Italia, siamo corresponsabili per i mancati soccorsi. Quel grande cimitero che in qualche modo abbiamo contribuito a creare nel Mediterraneo ci vede complici. È giunto il momento di definire questo atteggiamento, come lo ha definito Papa Francesco, criminale.

C’è chi evoca blocchi navali e chi promette muri, respingimenti, porti sbarrati.
È perseverare in una politica fallimentare e mi lasci dire disumana. Bisogna fermare le morti in mare investendo risorse per un’operazione europea di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Si strutturino in modo permanente e adeguato vie d’ingresso sicure per i migranti in Europa, agevolando i ricongiungimenti familiari. Prevedendo permessi di soggiorno per lavoro e programmi di accoglienza e integrazione. Si mettano in atto piani di evacuazione e corridoi umanitari per le vittime di guerra o di regimi illiberali e antidemocratici. Gestire un fenomeno complesso come la migrazione umana è responsabilità precisa dell’Ue, che richiede lungimiranza, visione e capacità di superare nazionalismi e chiusure.

Quelli che viviamo sono tempi di guerra. Anche su questo Papa Francesco ha usato più volte termini forti ed anche mettendo in campo se stesso come facilitatore di pace. Cosa che si sta riproponendo anche oggi. Eppure da più parti si sottovaluta questo o addirittura si cerca di fare terra bruciata attorno a questa possibilità. Lei come se lo spiega?
La cultura della pace non s’improvvisa. Papa Francesco che si offre anche come mediatore di pace non viene compreso nell’importanza dell’azione che vuole portare avanti. E questo perché in questi anni abbiamo costruito una cultura della guerra, abbiamo continuato a spendere tanti soldi per le armi. Non siamo andati in direzione di una pace vera ma di una pace armata. E questo finisce per minare le radici stesse di una pace che si costruisce nel giorno a giorno attraverso l’accoglienza, attraverso l’ascolto, attraverso il dialogo. E questi sono processi lunghi che non s’improvvisano e soprattutto non si costruiscono su delle basi che continuano ad avere le armi come elemento di dissuasione. Facciamo nostra l’esortazione di Papa Francesco: “Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. Così si è facilitatori di pace.

Papa Francesco ha sempre abbinato alla parola pace la parola giustizia.
Sì perché non esiste pace se non c’è giustizia. Lo abbiamo visto tristemente negli anni perché se, ad esempio, nei Paesi in via di sviluppo la sottrazione delle risorse, la riduzione in schiavitù di molte persone, non fanno altro che creare conflitti, conflitti interni, conflitti tra Stati. La giustizia è un elemento centrale nella costruzione della pace. Ne è uno dei pilastri essenziali. Senza giustizia non ci può essere pace e non ci può essere quel diritto a restare nella propria terra e a vivere felici. Perché non si creano quelle condizioni di uguaglianza per cui una persona possa vivere serenamente a casa propria. Questo poi determina quei spostamenti forzati a cui assistiamo e che non vogliamo accogliere. Ma di questi flussi siamo i primi responsabili.

Padre Ripamonti perché si fa così fatica a concepire i migranti come risorsa e non come minaccia?
Perché in un processo di semplificazione generale a cui siamo ormai abituati, occorre individuare quello che è il nemico contro cui combattere. Quella logica guerrafondaia che si basa sulle armi, che si basa su una pace determinata dalle armi ma che non è una vera cultura della pace, individua il nemico nel migrante e fa sì che diventi il capro espiatorio di tutta una serie di questioni. Ecco perché è importante, anche attraverso le nuove generazioni, continuare a sensibilizzar sulla costruzione di un mondo in dialogo, un mondo aperto, nel quale le religioni non vengano strumentalizzate per fare la guerra. Tutto questo deve essere costruito pian piano, con costanza e determinazione, altrimenti gli anni a venire non saranno altro che il risultato, come lo stiamo vedendo adesso, di questa sottostante cultura della guerra.

Avatar photo

Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.