Prima dodici, poi il refresh delle agenzie dava tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette: tutte donne, tutte nere, tutte morte. Tutte affogate davanti a una costa europea, in un viaggio meno sorvegliato e sicuro rispetto a quello che un paio di secoli fa le avrebbe portate verso qualche piantagione schiavista. Non è sbagliato dire che questa gente nera vale anche meno di quella prescelta dal mercante che la destinava a un naviglio più affidabile, e quelli che vi morivano di stenti o di frusta pativano una sorte dopotutto più armonica in un mondo che non aveva sottoscritto nessuna dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Questi che abbordiamo quando capita, per salvarne pochi e per recuperare i resti dei sempre più numerosi che non ce la fanno, non hanno nemmeno lo status garantito allo schiavo dal diritto proprietario trasmesso all’acquirente dal negriero. Quelli erano cose appartenenti a qualcuno, un padrone che poteva anche avere interesse a curarne il poco di salute necessario a farli lavorare: questi di oggi sono cose e basta, buone a dar fiato ai comizi quando sopravvivono e inutili da conteggiare quando affogano perché non depauperano nessun patrimonio. Anzi, non bisogna neppure mantenerli.

Chissà come una giovane serva di una fattoria bianca, curva di giorno sul riso o sul tabacco e sottoposta la sera alla monta dei guardiani, chissà come guarderebbe queste sue sorelle di duecento anni dopo. Chissà che futuro diverso avrebbe voluto per loro.