La stagione del populismo penale
Intervista a Vittorio Manes: “L’amnistia servirebbe al di là del Covid…”
Qualche giorno fa la Consulta ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito alla norma, introdotta durante l’emergenza sanitaria, che prevede la retroattività della sospensione dei termini della prescrizione. Nel procedimento era stato ammesso un amicus curiae dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Ucpi, il cui responsabile è l’avvocato Vittorio Manes, Professore Ordinario di diritto penale all’Università di Bologna. Manes è stato protagonista di importanti decisioni della Corte costituzionale: caso Dj Fabo, ergastolo ostativo e permessi premio, applicazione retroattiva della “spazzacorrotti”, e la nota sentenza Taricco.
Professor Manes possiamo dire che questa ultima decisione della Consulta non è entusiasmante per le garanzie degli imputati?
Scontato che occorra attendere le motivazioni per poter dare un giudizio. Ma la decisione di infondatezza della questione è già chiara, e segna un arretramento importante sul piano delle garanzie in materia penale, e del principio di irretroattività. L’emergenza che stiamo vivendo non può giustificare – in uno Stato di diritto – una deroga a principi fondamentali come l’irretroattività del reato e della pena.
Quali erano le ragioni principali a sostegno della illegittimità costituzionale?
L’Unione delle Camere penali ha condotto una autentica battaglia di civiltà sulla prescrizione, e sulle sue ragioni di garanzia, perché un ordinamento civile ripudia l’idea di un processo senza fine. In relazione al caso specifico, le ragioni che hanno determinato l’intervento a titolo di amicus curiae sono la ritenuta contrarietà a Costituzione di una modifica sfavorevole del regime di prescrizione con effetti retroattivi, appunto perché questa – incidendo sulla punibilità con effetti peggiorativi per l’imputato – violerebbe la superiore garanzia di irretroattività, da sempre ritenuta inderogabile nella giurisprudenza costituzionale, ed applicabile appunto all’istituto della prescrizione, che la stessa giurisprudenza della Consulta riconosce di “natura sostanziale”, cioè sostanza della legalità penale e non semplice morte del processo. Se è così, il legislatore avrebbe potuto e dovuto trovare altre soluzioni per garantire la prosecuzione dell’attività giudiziaria, diverse dall’addossare all’imputato una protrazione temporale della sofferenza processuale, perché così facendo – riparandosi dietro all’emergenza – ha compiuto una scelta di campo statocentrica, noncurante dei diritti fondamentali. Il rischio, peraltro, è che le eccezioni si trasformino in regola: e del resto l’ultimo DPCM ha previsto nuove ipotesi di sospensione, a dimostrazione che – in un contesto di emergenza che va purtroppo stabilizzandosi – le misure eccezionali e derogatorie tendono a consolidarsi, a tutto scapito della tenuta dello Stato di diritto.
Il giudice Nicolò Zanon non scriverà la sentenza, pur essendo il relatore del procedimento, perché in dissenso con la decisione della Camera di Consiglio.
Nel nostro sistema di giustizia costituzionale non è ammessa l’opinione dissenziente, e l’unico strumento che il relatore ha di manifestare il proprio dissenso è, appunto, quello di rinunciare a redigere le motivazioni: del resto, sarebbe difficile motivare qualcosa in cui non si crede. Chiaramente è il segno di una divisione all’interno del collegio, ed a mio avviso il meccanismo delle opinioni separate – concordanti o dissenzienti – garantirebbe maggior trasparenza alla decisione, lasciando emergere anche posizioni che oggi sono rimaste minoritarie ma che domani, magari, potrebbero diventare maggioritarie.
Qualcuno sostiene che la Consulta stia prendendo sul fronte delle garanzie e dei diritti degli imputati e dei detenuti un orientamento diverso rispetto a quello riscontrato durante la presidenza di Marta Cartabia.
Mi sembra francamente una valutazione opinabile, se non arbitraria. A prescindere dall’incidenza che le Presidenze – specie quelle molto brevi – possono avere sugli orientamenti della Corte, ogni questione è diversa dall’altra, ogni generalizzazione fuorviante, e mi sembrerebbe approssimativo “etichettare” una o l’altra stagione in un senso o nell’altro: certo durante le presidenze Lattanzi e Cartabia vi sono state decisioni storiche della Corte in punto di laicità del diritto penale (pensiamo al caso Cappato del “fine vita”) e di garanzie fondamentali (pensiamo alle decisioni rese nella “saga Taricco”, alla decisione che ha esteso il principio di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario, come il famigerato 4 bis, alla sentenza sull’ergastolo ostativo). Ma non sono mancate – ieri come oggi – decisioni francamente più opinabili, ed apertamente criticate in dottrina, come quella sulla confisca urbanistica o sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di mutamento del collegio. Certo le decisioni più recenti sembrano dimostrare minor rigore nella verifica di legittimità: e l’auspicio, ovviamente, è che la Corte si impegni a promuovere sempre una concezione “alta” della Costituzione e del proprio ruolo, che è quello di argine antimaggioritario a difesa dei diritti e delle libertà, anche nei contesti di emergenza.
In pochi giorni la Corte costituzionale ha promosso leggi fortemente volute da Salvini e Bonafede: “decreto antiscarcerazioni”, retroattività del blocco della prescrizione, inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo. La Consulta è un organo giurisdizionale neutro o qualche volta può prevalere l’aspetto politico?
La Corte costituzionale è un organo tecnico, ma a composizione mista “tecnico-politica”: sarebbe ingenuo pensare che le valutazioni politiche non entrino affatto nel giudizio, ma sarebbe altrettanto azzardato – e forse ingeneroso – pensare che queste assumano un peso dirimente. L’impressione è che ragioni di Realpolitik spesso contino di più delle ragioni di politica tout court, e che le prime possano persino fare premio sulle concezioni della Costituzione e della giustizia costituzionale alle quali ciascun giudice si riporta. Questo, a mio avviso, il rischio maggiore dal quale un tribunale costituzionale dovrebbe cercare di guardarsi, sforzandosi di astrarsi dalla contingenza e – per quanto possibile – di “schivare il concreto”: anche a costo di essere inattuali oggi per poter essere attuali domani.
Qual è il suo giudizio in merito alle novità introdotte dal Ministro Bonafede nel dl ristori e nel ristori bis?
Premesso che la scelta di limitare le occasioni di presenza fisica nelle aule dei tribunali è una esigenza comune a tutti, la possibilità di svolgere udienze e camere di consiglio da remoto, soprattutto quelle affidate al giudice collegiale, suscita perplessità, perché rischia di mortificare una giurisdizione di fondamentale importanza come la Corte d’Appello: un giudice a cui è assegnato un compito di valutazione critica anche e soprattutto in ordine al merito dei fatti contestati che dovrebbe implicare collegialità reale e contraddittorio in presenza come regole non derogabili.
Bonafede ha introdotto anche delle misure per sfoltire la popolazione carceraria. Molti, tra cui il Garante, il Partito radicale, Nessuno tocchi Caino, Antigone, chiedono azioni più incisive. Lei cosa pensa?
Penso che di fronte ad una emergenza come quella che stiamo vivendo vi sarebbero mille ragioni per un provvedimento di clemenza collettiva, che del resto potrebbe essere giustificato non solo dall’emergenza sanitaria nelle carceri ma già da una considerazione complessiva della giustizia penale italiana, dove si punisce moltissimo in astratto e si persegue moltissimo – ed in modo spesso indiscriminato – in concreto. La giustizia penale è una risorsa scarsa, e come tale andrebbe concepita e gestita; il carcere – come vuole la Costituzione – deve essere davvero l’extrema ratio, giustificabile solo quando altre misure risultino inadeguate: ma siamo purtroppo a distanza siderale da questo orizzonte culturale, e la stagione del “populismo penale” – con un impeto punitivo impulsivo e compulsivo – ha esasperato ancor più questo declino.
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