«Si può, per comprendere meglio tutto questo, immaginare che le parti stiano di fronte al giudice come una sorgente di luce; ogni diaframma, che s’interpone fra l’uno e l’altra, assorbe in maggiore o minor grado i suoi raggi». Così scriveva Francesco Carnelutti a proposito del principio di oralità nel processo penale il quale, molto probabilmente, mai avrebbe immaginato che non diaframmi ma muri invalicabili sarebbero stati eretti tra i diritti e il loro giudice. Ebbene, questo governo, che veste ormai da troppo tempo le vesti di maldestro manovale nel processo penale (e non solo), con l’articolo 23 del decreto legge 149 di lunedì scorso (cosiddetto decreto Ristori-bis) ha annunciato la dipartita del processo di appello mediante la previsione, fuori dai casi di rinnovazione dibattimentale, della trattazione scritta delle conclusioni. In sintesi, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero facciano richiesta di discussione orale, le Corti decideranno in camera di consiglio senza il loro intervento; si potrà, tuttavia, inviare conclusioni scritte per via telematica entro i termini stabiliti dal decreto.

Quest’ulteriore “agente patogeno” si insinua nel processo penale con le stesse modalità, silenziose e invasive, del virus che ne ha consentito l’elaborazione, con la differenza che, mentre un vaccino ci salverà dal Covid, agli effetti devastanti del decreto non seguirà rimedio nel Paese in cui ciò che è temporaneo diviene permanente. L’avversione a questa ennesima involuzione non è dettata da motivi di “romanticismo giudiziario” (come alcuni sostengono) ma dal rispetto dei principi cristallizzati nella Carta costituzionale e dalla Cedu, secondo cui la difesa è un diritto inviolabile che, per ciò stesso, deve (rectius, dovrebbe) essere esercitata nella sua interezza, vedendo nella discussione finale la sua massima espressione e per cui ognuno ha diritto affinché la sua causa venga discussa pubblicamente (al di fuori delle ipotesi codicistiche tassativamente previste) disponendo delle facilitazioni necessarie per approntare la propria difesa.

La trattazione cartolare, dunque, priva le parti del momento culmine del processo, fase in cui le questioni di fatto e diritto, riportate nei motivi di appello depositati, trovano la loro fisica manifestazione nella eloquenza del difensore, tratteggiata da spunti dialettici ed espressivi che rendono vivi e potenti ragionamenti e lemmi sino a quel momento sterili e che si espandono e intersecano nelle eventuali repliche concesse alle parti processuali non previste dalle disposizioni del decreto Ristori-bis. Il Governo, poi, è andato oltre ogni aspettativa con le disposizioni previste dall’articolo 24 del citato decreto in tema di sospensione della prescrizione e dei termini di durata delle misure cautelari secondo cui i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario in conseguenza delle misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Per lo stesso periodo di tempo sono sospesi il corso della prescrizione e i termini previsti dall’articolo 303 del codice di procedura penale. In pratica, in caso di impedimento a comparire di uno dei soggetti elencati, a farne le spese sarà l’imputato, il quale dovrà soggiacere alla scure del processo penale per ulteriore tempo e, se sottoposto a custodia cautelare, il periodo di sospensione non verrà calcolato ai fini della durata massima della stessa. In un sol colpo, dunque, con questo provvedimento di urgenza si è minato il diritto di difesa e, ancor più grave, la libertà personale degli individui, relegandola nei meandri più bui della burocratizzazione del processo.